Corriere della Sera, 28 novembre 2018
Ucraina, la Strana guerra ignorata
Avevamo dimenticato, prima dell’ultimo incidente nel mare di Azov, che in Ucraina vi era ancora una guerra? No, naturalmente. Sapevamo che nel Donbass le formazioni militari dei due campi non avevano mai smesso di provocarsi a vicenda. E non potevamo ignorare che la costruzione di un grande ponte sullo stretto di Kerch, trionfalmente battezzato da Putin nello scorso maggio «ponte di Crimea», avrebbe preoccupato e irritato gli ucraini. Ma non vi è vicenda, per quanto grave e inquietante, che non venga logorata dal tempo e scavalcata da altre notizie. Nell’era della comunicazione globale, durante gli scorsi mesi, abbiamo dovuto rincorrere sulla scacchiera mondiale la crisi libica e quella siriana, gli scontri verbali fra Istanbul e Riad dopo il brutale assassinio del giornalista Jamal Khashoggi nel consolato dell’Arabia Saudita in Turchia, il tentativo europeo di salvare l’accordo nucleare con l’Iran e i rapporti delle loro aziende con la Repubblica islamica di Teheran, per non parlare degli immancabili tweet quotidiani di Donald Trump sul tema del giorno e, beninteso, dell’atto conclusivo (?) di Brexit. In questo caleidoscopio di crisi più o meno gravi, i bollettini che ci arrivavano dalle zone calde della Ucraina sembravano più o meno eguali a quelli della settimana precedente e quindi poco interessanti.
Mi chiedo se le stesse riflessioni non siano state fatte da alcune delle parti interessate alla crisi ucraina e preoccupate dal velo di silenzio che stava calando sulle sue vicende.
I l presidente ucraino Petro Poroschenko dovrà chiedere al Paese nel prossimo marzo il rinnovo del suo mandato; e i sondaggi non gli sono favorevoli. La legge marziale proclamata subito dopo l’incidente, se confermata dal Parlamento di Kiev e giustificata dalle Nazioni Unite, potrebbe permettere al presidente di rinviare il voto o convincere gli elettori che la continuità, in questi frangenti, è un valore apprezzabile. L’incidente precede di qualche settimana il vertice dell’Unione Europea che dovrà decidere se rinnovare o meno le sanzioni imposte alla Russia. Sapevamo che alcuni Paesi, fra cui forse l’Italia, avrebbero probabilmente manifestato qualche dubbio. Quali saranno gli umori del vertice dopo quello che è accaduto domenica scorsa?
E Putin? Non poteva immaginare quali sarebbero state le reazioni occidentali? Non sapeva che l’«amico Trump», preoccupato dalla prospettiva dell’impeachment dopo il successo dei democratici nelle elezioni per il rinnovo parziale del Congresso, non avrebbe potuto, in questa circostanza, dargli una mano? Ignorava che uno scontro a fuoco sarebbe parso a molti, non necessariamente ostili alla Russia, un tentativo per annettere l’intero mare di Azov? Credo che il presidente russo abbia altri timori, per lui più importanti. Dal vertice atlantico di Bucarest, nel 2008, quando il presidente George W. Bush propose l’ingresso dell’Ucraina e della Georgia nella Nato, la Russia di Putin vive in stato d’allarme. Ha accettato l’adesione alla Nato dei Paesi che appartenevano al Patto di Varsavia e delle repubbliche baltiche che Stalin aveva brutalmente annesso all’Urss dopo il patto Molotov-Ribbentrop del 23 agosto 1939. Ma dubito che accetterebbe il passaggio all’Ovest di due Stati che furono per qualche secolo parte integrante della Russia zarista e di quella sovietica. Le democrazie occidentali non sono tenute a condividere le preoccupazioni geopolitiche di Putin. Ma se daranno un’occhiata alla storia ucraina del secolo scorso constateranno che il Paese, prima della sua unificazione, ha vissuto sotto molte bandiere: austriaca, polacca, tedesca, russa, sovietica. Questo non significa che l’Ucraina debba rinunciare alla propria indipendenza. Ma non ha bisogno di presidenti che pendono dal lato della Russia, come Yanukovich, o da quello dei Paesi della Nato, come Yushchenko ieri e Poroschenko oggi. Ha bisogno di un leader come Tito che durante la guerra fredda seppe rendere il non impegno della Jugoslavia utile e gradito a tutti i Paesi con cui confinava.