Corriere della Sera, 27 novembre 2018
La lotta contro l’obesità dei bambini secondo Paolo Barilla
In Italia siamo chiamati a far fronte a un’emergenza che non avevamo previsto, l’obesità infantile. Secondo i dati Oms oltre il 21% dei bambini tra i 6 e i 10 anni è a rischio, aggiungendo i sovrappeso arriviamo tra i maschi al 42% e tra le femmine al 38%. Altre ricerche forniscono numeri ancora peggiori. A suonare l’allarme stavolta però non è un’organizzazione sanitaria ma un industriale, Paolo Barilla, vicepresidente del gruppo di famiglia. Che spiega: «Siamo di fronte a un mutamento degli stili di vita, prima noi italiani con la dieta mediterranea eravamo i depositari di un modello virtuoso, oggi stiamo arretrando».
Dice così perché è preoccupato dal declino del consumo di pasta?
«I consumi di pasta, alla base della dieta mediterranea, sono in calo da diversi anni ma le rispondo di no e lo faccio con onestà. Le nostre preoccupazioni sono a più ampio raggio e il forum internazionale che organizziamo da oggi a Milano ne è la dimostrazione. Protagonisti saranno personalità indipendenti di tutto il mondo che si interrogheranno sul futuro del pianeta, non sul fatturato dell’azienda».
L’aumento dell’obesità è un altro frutto perverso della Grande Crisi?
«No, è soprattutto un cambiamento delle scelte delle persone e dei produttori. Quando ero bambino, si giocava a pallone sotto casa. Oggi, si gioca con i videogame a casa. Diverse multinazionali hanno allargato il loro mercato con proposte che non avevano al centro uno stile di vita corretto. In Italia poi abbiamo pensato che per le nostre tradizioni fossimo al riparo e l’industria alimentare ha agito in ordine sparso, ognuno ha badato al suo interesse immediato».
L’obesità è una nuova disuguaglianza del nostro tempo?
«Sì. Colpisce le fasce più povere e il paradosso è che incide più al Sud che al Nord, quel Sud culla della dieta mediterranea. Quando l’offerta di cibo fast food si congiunge alla scarsa attività fisica e a un’ampia quota di grassi ingeriti si determina un combinato disposto estremamente negativo, specie per i giovani».
L’industria deve fare autocritica?
«Sicuramente, l’autocritica serve per trovare la strada del miglioramento. Oggi qualità non vuol dire solo prodotti sani, bensì intervenire dal seme fino alla salute del consumatore. Il vecchio modello “più produci meglio è” non funziona e in parallelo però l’industria si accorge di essere inadeguata a sostenere da sola la responsabilità di invertire la rotta».
Che cosa pensa del sistema dei semafori sulle etichette per mettere in guardia i consumatori dal contenuto dei prodotti?
«È una scorciatoia: una società non evolve con i divieti, ma con cultura ed educazione. A Parma da 20 anni abbiamo dato vita a un’alleanza pubblico-privata vincente, il Giocampus. Portiamo l’educazione alimentare e motoria nelle scuole e i risultati si vedono: l’obesità infantile è al di sotto della media nazionale».
Ma dieci Giocampus non sono sufficienti, pensa a un piano nazionale contro l’obesità?
Il ruolo dell’industria
Il modello «più produci, meglio è» non funziona più, ora anche l’industria deve fare la sua parte
«È necessario. Occorre coinvolgere i pediatri, i Comuni e i privati. Investire a monte significa risparmiare a valle in spesa sanitaria».
Il governo ha avanzato l’ipotesi di tassare le bibite gassate.
«Non credo a questa misura. Perché solo le bibite? Mi sembra discriminatorio. Non porta a un senso di responsabilità».
Sull’eliminazione dell’olio di palma l’industria italiana si è divisa creando confusione tra i consumatori.
«È il grasso più funzionale per cibi conservabili a lungo, con un costo contenuto. Noi avevamo già iniziato a sostituirlo per migliorare il profilo nutrizionale dei prodotti da forno. Quando poi l’Efsa ne ha evidenziato i rischi, nel giugno 2016, abbiamo accelerato la sostituzione dei grassi saturi da tutti i nostri prodotti. Una discontinuità che ci costa 30 milioni di euro l’anno in più».
La userete a fini commerciali però visto che state per lanciare una crema senza olio di palma in concorrenza con Nutella.
«È lo spin off di un marchio di successo, il Pan di Stelle. Ma non nasce da un tema competitivo con Ferrero. È un prodotto diverso da Nutella, non solo per l’olio di palma. È poi importante inquadrarlo come un momento di indulgenza».
C’è un legame tra il lavoro della Fondazione Barilla e le vostre scelte aziendali?
«Certo. Abbiamo già riformulato quasi 400 prodotti e quando ne lanciamo di nuovi partiamo dai risultati del lavoro della Fondazione».
Che cosa pensa del governo Conte e del mancato dialogo con l’imprenditoria?
«Non si vede l’innovazione come un valore e il governo è molto orientato a redistribuire quello che non c’è e non ha. L’obiettivo prioritario dovrebbe essere creare nuova ricchezza che serve a pagare un welfare capace anche di affrontare l’emergenza obesità. Invece viene portato avanti un modello autarchico e gli osservatori esterni ci percepiscono come un Paese che si sta chiudendo».