Corriere della Sera, 27 novembre 2018
Il vicepremier, il «navigator» e l’inglesorum della politica
Un popolo di santi, poeti e navigator. Già ci si era messa di mezzo la tecnologia, per cui sentendo navigatore più che a Colombo pensiamo al TomTom: ora pure la politica. Il «navigator» annunciato da Di Maio sta al reddito di cittadinanza come il «Jobs act» di Renzi stava al lavoro. (Né può rassicurarci il ricordo del film Navigator, nel quale un ragazzo viene rapito dagli alieni). Siamo nel pieno di quello che Gian Antonio Stella chiamò nel 2004, riferendosi all’allora ministro Tremonti, «inglesorum». Parole ed espressioni inglesi usate dai politici con lo stesso intento del «latinorum» di Don Abbondio: confondere le idee. Nel solco, va detto, di una tradizione che dura da almeno mezzo secolo. Certo: buona parte del lessico parlamentare italiano viene, storicamente, dall’inglese. A partire proprio da parlamento, che in origine significava conversazione e sul modello di parliament passa a indicare un’assemblea legislativa. Sull’inglese si è modellato, nel tempo, l’uso di parole che hanno contribuito all’ossatura terminologica di un nuovo sistema politico: come maggioranza, coalizione, esecutivo. Cosa ben diversa è la moda dei nomi inglesi dati a provvedimenti politici di vario genere. Si parte dal ticket sulle medicine istituito negli anni 70 dal democristiano Pandolfi, per poi passare – via via – ad austerity,welfare, devolution, spending review… Nessuno rimpiange, sia chiaro, i tempi dell’autarchia linguistica. Quelli in cui s’intimava agli italiani: «boicottate le parole straniere!», dimenticando che la parola boicottaggio viene – attraverso il francese boycottage – dall’inglese to boycott. Era Grillo, casomai, che nel 2016 aveva concluso il suo contro-discorso di fine anno con una nota di sovranismo linguistico: «Parlo italiano quindi sono italiano, ma questo italiano deve essere in tutto il mondo. Siamo i migliori e lo dimostreremo». Anche in questo, invece, il governo del cambiamento non sembra così diverso dai precedenti. A meno che, in tempi di Brexit, non si voglia far diventare l’inglese una bandiera contro gli eurocrati di Bruxelles. «Italian first», si potrebbe dire allora, echeggiando – senza la fatica di tradurle – le parole d’ordine che vengono d’oltreoceano.