la Repubblica, 27 novembre 2018
Nella prigione che cura i sudcoreani sfiniti dal lavoro
Le regole sono rigide. Uniforme blu da detenuti. Niente telefonini o orologi. Non si parla con gli altri ospiti. Si dorme sul pavimento su un materassino da yoga. Nella stanza solo una piccola toilette, neanche uno specchio. Chi penserebbe mai di rinchiudersi volontariamente in una prigione del genere, per di più a pagamento? E invece in Corea del Sud sono tanti, più di 2mila persone, che da quando ha aperto nel 2013 hanno bussato alle porte di “Prison Inside Me”.
Cercando di scappare da una vita quotidiana la cui pressione è insostenibile attraverso l’isolamento in questa struttura di Hongcheon, nel Nordest del Paese. Un po’ carcere, un po’ albergo, molto casa di cura. Sono studenti schiacciati dalla feroce competizione del sistema educativo o lavoratori che non reggono turni interminabili, in un’economia dove si fatica oltre 2mila ore in media l’anno, più che in qualsiasi altro Stato dell’Ocse esclusi Messico e Costa Rica. «La prigione mi dà un senso di libertà», dice alla Reuters nel mezzo della sua cella di cinque metri quadrati Park Hye-ri, 28 anni e un lavoro da impiegato d’ufficio, che ha pagato 90 dollari per una notte lontano dal mondo di fuori.
Qualche comodità da vita libera agli ospiti viene concessa: un servizio da tè, una penna e un blocco note su cui lasciar scivolare i propri pensieri, qualche passeggiata all’aria aperta e sedute di ginnastica, ma in rigoroso silenzio. Menù fisso: a colazione porridge di riso, a pranzo patate dolci bollite e a cena un frullato di banane, da consumare sempre nella solitudine della propria stanza, prima che la porta venga chiusa a chiave e la luce spenta.
La proprietaria della prigione, Noh Ji-Hyang, racconta che l’idea gli è stata data da una frase buttata lì quasi per caso dal marito, un magistrato che spesso e volentieri lavorava oltre dodici ore al giorno: «Piuttosto me ne starei confinato nell’isolamento per una settimana». Lei l’ha preso sul serio, fondando la struttura grigia in mezzo alla campagna, un parallelepipedo con finestre alte e strette, una per ogni cella. «Dopo essere state qui le persone dicono che non è una prigione, la vera prigione è dove devono tornare», dice.
Negli ultimi mesi il governo guidato da Moon Jae-in ha preso una serie di misure per migliorare le condizioni dei lavoratori sudcoreani, aumentando il reddito minimo e abbassando il numero massimo di ore di lavoro a 52 a settimana, comunque una enormità. Nel frattempo però il livello della disoccupazione è salito al 4,2%, il massimo dalla grande crisi, mettendo ulteriore pressione sui cittadini. «Non dovrei essere qui con tutto il lavoro che ho da fare – riconosce Park – ma ho deciso di fare una pausa e riflettere su di me per avere una vita migliore».