il Fatto Quotidiano, 27 novembre 2018
Se vinceva il Sì
Sabato, su Repubblica, Gustavo Zagrebelsky ha denunciato alcune derive politiche e linguistiche anticostituzionali che non sono fascismo, ma – se possibile – qualcosa di ancor peggio: il “tribalismo”, come Karl Popper definiva le società chiuse e dunque oligarchiche. Il presidente emerito della Consulta non fa nomi né indica partiti, perché quelle derive non sono esclusiva di nessuno, e non sono neppure nate oggi. Affondano le radici nel craxismo e sono poi dilagate col berlusconismo e i suoi trafelati imitatori di centrosinistra, dal dalemismo al veltronismo al renzismo. Tutti in fregola di governo “forte”, tutti allergici ai poteri terzi – dalla libera stampa (la poca rimasta) alla magistratura indipendente (la poca rimasta) – e per i controlli – dal Parlamento al popolo sovrano. Una lezione per tutti, dunque: per i governanti giallo-verdi, ma anche per i loro oppositori che hanno sgovernato prima, spalancando le porte ai nuovi venuti. Ma, siccome non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire né peggior stupido di chi non vuol capire, l’articolo di Zagrebelsky è stato totalmente frainteso dai più.
Molti vi hanno letto un drammatico appello a salire sulle montagne per una nuova resistenza contro il Duce Conte e i suoi duumviri. Il duo Renzi&Boschi, parlandone da vivi, l’ha scambiato (o spacciato) per un tardivo mea culpa sul No al referendum del 2016 e per una riabilitazione della schiforma costituzionale (quintessenza del tribalismo oligarchico) bocciata dagli italiani. Come se non si potessero criticare i governi B., Monti, Letta, Renzi, Gentiloni e Salvimaio senza scusarsi con qualcuno. Sentite Renzi, che spasso: “Avessimo vinto il referendum, oggi avremmo un governo efficiente, anziché un continuo litigio tra due forze politiche. La retorica della deriva autoritaria (così Zagrebelsky, Rodotà e altri costituzionalisti di Libertà e Giustizia definirono nel 2014 il combinato disposto fra Italicum e controriforma costituzionale, ndr) mi ha dipinto come un dittatore, una lettura ridicola. Io volevo abolire il Cnel, Grillo vuole abolire il Parlamento. Ma persino il teorico della deriva autoritaria, il professor Zagrebelsky, si è svegliato dal letargo chiamando alla resistenza contro il governo Conte-Di Maio-Salvini”. E sentite la Boschi, poveretta: “Zagrebelsky unisce la sua voce contro i rischi del Governo. Non una parola però sulle responsabilità di chi ha sdoganato il grillismo e di chi ci accusava ingiustamente di deriva autoritaria”. I due vedovi inconsolabili del referendum dovrebbero ringraziare Zagrebelsky, il Fatto e tutti quelli che invitarono a votare No.
Altrimenti oggi, oltre alla epocale abrogazione del Cnel, avremmo un governo molto più forte e incontrastato di quello che già fa gridare qualcuno al “regime”. E questo grazie ad alcuni astuti marchingegni che i volponi renzian-verdiniani avevano pensato su misura per sé riscrivendo coi piedi 47 articoli (su 139) della Costituzione, e che invece ora sarebbero a disposizione degli odiati barbari giallo-verdi. Il Senato non sarebbe più eletto direttamente dal popolo e non rappresenterebbe più tutte le maggiori forze politiche in ordine di consenso, ma ospiterebbe 100 fra sindaci e consiglieri regionali votati dai Consigli regionali: quasi tutti di centrodestra (maggioranza) e di centrosinistra (minoranza), cioè delle coalizioni che oggi si dividono i governi regionali, e quasi nessuno dei 5Stelle (il primo partito italiano, che però non governa in alcuna regione). Naturalmente al Senato i numeri cambierebbero a ogni nuova tornata elettorale regionale, con un sistema di porte girevoli che cambierebbe gli equilibri di Palazzo Madama a ogni stormir di fronda. I deputati della Camera, invece, li avremmo eletti col Rosatellum, visto che l’Italicum non fu bocciato dai cittadini al referendum (come raccontano i renziani), ma dalla Consulta. E l’unica maggioranza possibile sarebbe quella che già governa: M5S+Lega. Quindi, siccome il voto di fiducia sarebbe esclusiva della Camera, avremmo lo stesso governo Salvimaio. Un governo però ricattato al Senato da B. a ogni legge (ben 12 iter legislativi), con mercanteggiamenti e trasformismi per far passare le singole norme.
La sproporzione fra i 630 deputati eletti e i 100 senatori nominati darebbe ai giallo-verdi ancor più potere nelle decisioni del Parlamento in seduta comune: l’elezione del nuovo capo dello Stato, la nomina dei membri laici del Csm e l’impeachment del presidente della Repubblica. Così il Quirinale sarebbe molto più ricattabile dalla maggioranza alla Camera. E nel 2022 il successore di Mattarella, dopo la settima fumata nera, potrebbe essere eletto da appena 220 grandi elettori su 730 aventi diritto. Ora, gli ultimi a doversi dolere e i primi a doversi rallegrare per la sconfitta referendaria del 4 dicembre 2016 sono proprio i pidini superstiti: col partito al 16% e le destre vicine al 50, col rischio di perdere presto qualche altra regione, poi le elezioni europee e subito dopo anche le Politiche anticipate, insomma con la prospettiva di un bel governo Salvisconi, la loro schiforma che rafforzava i governi e indeboliva oppositori e controllori sarebbe un disastro irreversibile non solo per loro, ma anche per la democrazia. Quindi, oltre a Zagrebelsky, al Fatto e al 60% degli elettori, i pidini residui dovrebbero ringraziare pure Lega e FI per aver contribuito al No. E gli unici a pentirsene dovrebbero essere proprio Salvini e B. che presto, con quel sistema, potrebbero fare il bello e il cattivo tempo in un’aula sorda e grigia. Ma forse è questo l’ultimo sogno della buonanima di Renzi: una bella restaurazione di centrodestra con uno strapuntino anche per lui. “A Berluscò, a Salvì, ricordàteve de l’amici!”.