il Giornale, 27 novembre 2018
Tennis e letteratura
Forty, love. Sono quarant’anni, forse anche qualche palleggio in più, che Matteo Codignola ama forsennatamente il tennis («Scriva pure che ne sono vittima»). Lo ama da giocatore («Ho iniziato da ragazzino e non ho mai smesso»), da spettatore («Fosse per me lo guarderei in tivù anche 24 ore su 24»), da lettore («Diciamo che maneggio la materia»), e da scrittore: da tempo lo fa per un magazine di sport&cultura. Mentre di pubblicare un libro ci ha pensato per anni. Solo che non sapeva cosa raccontare. Poi, tempo fa, il suo amico Vincenzo Campo (editore sofisticato di Henry Beyle e cacciatore di mercatini) trova una valigia zeppa di vecchie fotografie d’agenzia, tra cui un centinaio sono di tennis, scattate nel circuito amatoriale del secondo dopoguerra, anni ’50 e ’60, prima che nascesse il professionismo come lo intendiamo oggi, cioè prima dell’era Open nel 1968. Campioni in azione, racchetta in pugno. Coppie di doppio misto. Strette di mano a fine match. Pause di gioco. Sbarchi di stilosi atleti in aeroporto... Vita quotidiana e partite, che poi per tutti loro erano la stessa cosa. «E lì ho capito che avevo trovato le storie giuste da raccontare. Ho scelto venti fotografie e per ognuna ho scritto una lunga didascalia, diciamo un capitolo». Ed ecco Vite brevi di tennisti eminenti (un po’ biografie d’autore, un po’ cronache al massimo livello di uno sport minore, un po’ riflessione autoironica sul gioco più serio che esista) pubblicato dalla stessa casa editrice di cui Codignola – genovese di nascita, milanese di rinascita e tennista più che amatoriale – è editor di lungo corso e traduttore. Tra gli altri di Patrick McGrath, Mordecai Richler, Patrick Dennis e John McPhee (autore peraltro ben noto a chi sa di letteratura e di tennis...).
Vite brevi, storie fantastiche (per quanto vere). Come quella del barone Gottfried von Cramm, nobile eleganza e classe teutonica, forse – secondo una battuta crudele ma perfetta – «il più forte giocatore a non aver mai vinto Wimbledon». o come quella («una delle mie preferite...») di Eleanor Teach Tennant, la prima grande coach della storia del tennis: indipendente, sessualmente libera, amica di mezza Hollywood, fanaticamente devota alla sue allieve. O quella del losangelino Pancho Gonzales (1928-95), «il più grande di sempre», ma che in pochissimi hanno avuto al fortuna di vedere, dato che giocava nei circuiti professionisti, quindi fuori dai tornei del Grande Slam, e che a 41 anni, nel ’69, a Wimbledon, vince la partita più lunga mai giocata fino a quel momento...
Dietro quelle foto d’epoca ci sono storie meravigliose. Dietro le copertine e le conferenze stampa dei campioni di oggi...
«C’è quello che loro vogliono che tu sappia. Sono giocatori straordinari, intendiamoci. Ma sopratutto grandi personaggi mediatici dei quali, al di là di ciò che ti dice il loro portavoce, non sai niente. Una volta i tennisti giocavano di meno ma giravano di più. Li vedevi, ci parlavi, di loro si sapeva molto... Le cronache giornalistiche di quegli anni – ricchissime di aneddoti, battute, curiosità dentro e fuori dal campo – sono stupende... Un po’ meno i libri. Erano ragazzi che a 35-40 anni si ritrovavano senza sapere più cosa fare, e così si mettevano a scrivere un’autobiografia, con l’aiuto di un ghost, e quasi mai divertente: poco più di un elenco di match. Il tennis ha sempre prodotto un’editoria sotterranea mediamente noiosa».
Fino a Open. L’eccezione.
«Open è un notevolissimo caso di scuola, un libro che alla storia di Agassi aggiunge molto, e toglie anche qualcosa – diciamo così – di spinoso. Ma è un libro che si è fatto leggere da milioni di persone proprio perché è stato costruito da un grande scrittore, J.R. Moehringer, sull’impalcatura del Grande Romanzo Americano. È qualcosa un po’ più del tennis, qualcosa un po’ meno della letteratura».
Qual è il rapporto tra tennis e letteratura?
«Mi sono fatto l’idea che nel tennis, rispetto a tutti gli altri sport, c’è una indubitabile ricerca della bellezza, del bel gesto, un desiderio di eleganza formale che si può accostare a quell’armonia, o equilibro, che qualcuno – non tutti... – ricerca scrivendo. Di più: nel tennis c’è la stessa ossessione e la stessa incontentabilità che trovi in letteratura. Cerchi sempre la partita perfetta, senza sbavature, come nella scrittura. Se sbagli un quindici, appallottoli e butti via il foglio...».
Cosa significa – cito – che «tra la linea di fondo del campo e la rete ci sono più cose di quante ne contenga la filosofia di un giocatore»? O di uno scrittore...
«Significa che nel tennis tu pensi in continuazione, in maniera – anche qui – ossessiva, per tutta la durata della partita: pensi nelle pause, mentre colpisci la palla, mentre la raccogli. Pensi cosa c’è che non va, perché hai fatto quell’errore, pensi al terrore che ti paralizza quando la possibilità di vincere inizia a prendere forma. E pensi anche nei momenti in cui continui ostinatamente a ripetere, senza una logica apparente, il tuo errore. Il punto è, come disse un grande coach, che il giocatore di tennis non ha mai un piano B. Solo un piano A. Non so, in quello strano rettangolo c’è qualcosa di più di quello che vediamo...».
Genio e sregolatezza vanno sempre insieme, nello sport e anche in letteratura. E così?
«Premessa. A me piacciono i talentuosi; mai avuto la mistica del mediano, o il culto del gregario. Ma credo che non esista il genio senza sudore e lavoro. Non ci credo. C’è l’intuito, la predisposizione, ci sono tante cose, certo... Ma per essere il numero uno devi studiare, allenarti, sputare sangue. Nella scrittura e nello sport. Roger Federer – che io reputo il giocatore più talentuoso mai esistito – è una splendida macchina da guerra. Ma non spunta dal nulla. È frutto di migliaia di ore di allenamento. Nel tennis, e in letteratura, non basta il talento. Non è mai bastato».
Il libro, e il tennis in generale, è pieno di storie di inglesi, americani, australiani soprattutto. E di italiani anche. Cosa ha dato l’Italia al tennis?
«Molto. Grandi giocatori, come Giorgio De Stefani negli anni Trenta. Ha dato Beppe Merlo, esile, amatissimo dalle donne, che giocava pianissimo ma vinceva contro tennisti che avevano quattro volte la sua forza. E poi, in un’altra stagione, ha dato un giocatore come Panatta. Io non amo molto il tennis vintage e lentissimo, preferisco quello attuale. Ma di recente mi sono imbattuto nel documentario The French, sul Roland-Garros... Ho visto tre spezzoni di Panatta. E mi sono ricordato delle cose sovrumane, per bellezza, che faceva».
Tennis e editoria. Come va la partita?
«Bene, meglio che nel cinema forse. Detto tra di noi Borg McEnroe e La battaglia dei sessi, usciti l’anno scorso, sono due film ben fatti, ma deludenti. Le storie sono belle. Quello che manca è il gioco, che nessun tentativo di imitazione, o di ricostruzione, riesce a rendere. In compenso, sì, vedo che i libri sul tennis anche da noi cominciano ad avere il loro pubblico. A parte Tennis di John McPhee, che è uno scrittore gigantesco qualunque cosa scrivi, e uscendo da casa Adelphi, ci sono titoli molto belli di 66thand2nd, che è nata per pubblicare libri di questo genere. Finalmente anche da noi si inia ad apprezzare lo sports writing. Cosa che negli Stati Uniti si fa sempre. E infatti ci sono pezzi di Sports Illustrated che stanno tranquillamente a livello degli articoli più belli del tanto, giustamente, celebrato New Yorker...».