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 2018  novembre 27 Martedì calendario

Leonardo Pieraccioni e l’amore. Intervista

Anche Leonardo Pieraccioni piange Bernardo Bertolucci. «Il suo cinema, che non ha niente a che vedere con quello fatto in casa di un cabarettista come me», dice, «accarezza il cuore». 
Ma lo spettacolo deve andare avanti e, mentre il mondo intero celebra il maestro, l’attore-regista toscano presenta Se son rose, la nuova commedia con cui torna in sala il 29 novembre con Medusa. 
Arrivato a 53 anni, alle spalle incassi mostruosi (Il Ciclone, nel 1996, totalizzò 78 miliardi di lire) e fallimenti sentimentali, una figlia adorata di quasi 8 e un presente da single, Pieraccioni ha raggiunto una certezza: «L’amore, dopo tre anni, scade». Affiancato da un cast tutto femminile (Claudia Pandolfi, Gabriella Pession, Caterina Murino, Michela Andreozzi, Elena Cucci, Antonia Truppo, Mariasole Pollio), nel film l’eterno Peter Pan si ritrova a tu per tu con una decina di ex a cui la figlia quindicenne, a sua insaputa e dal suo cellulare, ha spedito l’identico messaggio: «Sono cambiato, riproviamoci». E succede di tutto. 
Ma lei, che nella trasmissione Verissimo ha rivelato di essere stato tradito, perché ha fallito con le donne?
«Non ero attrezzato. Ho affrontato la maratona del matrimonio con le infradito anziché con le scarpe adatte. Sicché oggi non faccio nemmeno la fatica di partire. Volevo intitolare il film Gli evitanti, quelli che non ci provano più». 
Intende dire che non è innamorato? 
«No, per carità. Preferisco guardare dalla finestra le altre coppie per intuire a che distanza sono dalla rottura. L’amore dura solo tre anni e dal primo giorno inizia il conto alla rovescia, come a San Silvestro. Ormai sono rimasti insieme solo Minnie e Topolino». 
Ma perché, dopo tre anni, l’amore dovrebbe scadere? «Perché si rompe l’incantesimo. Gli uomini lo scoprono a 50 anni, le donne a 40 iniziano a preoccuparsi. Mi dicevano tutti: vedrai che cambierai quando prenderai la briscola. Ma io l’ho presa ogni volta che mi sono innamorato. Poi però mi è passata. C’è solo un amore che dura tutta la vita: quello per i figli».
Si sente davvero cambiato? «No, continuo a fare quello che mi diverte senza preoccuparmi del risultato. Mai pensato agli incassi, mai avuta la sindrome del David di Donatello. E per fortuna non mi sono mai imbattuto in una Yoko Ono, cioè una fidanzata che mi spingesse a rendere di più. Continuo ad essere un cabarettista prestato al cinema. L’unico cambiamento, meraviglioso, è stato rappresentato da mia figlia Martina». 
Come ha imparato a fare il padre? 
«Mi è venuto naturale. Martina mi fa morire dal ridere, a 8 anni ha una maturità pazzesca. Decide tutto lei, mi porta dove vuole».
E oggi come si fa a portare il pubblico in sala? 
«Alzando il tiro. Bisogna scrivere i film con più accuratezza. Ieri la gente andava a vederli a scatola chiusa, oggi si documenta in anticipo. E il passaparola non perdona» 
Cosa indica il successo fuori misura di Checco Zalone? 
«Al di là dell’indubbio talento, Zalone rappresenta quella novità che il cinema richiede ogni 15, 20 anni. Nel 1996 ero io, oggi è lui». 
A quali spettatori intende rivolgersi? 
«A tutti, specialmente ai sospirosi che rimpiangono di non aver fatto tutto il possibile per conservare l’amore». 
Ha riempito il film di donne perché è l’anno di #MeToo? «Ma no, l’ho fatto perché la storia lo richiedeva. Non funzionano le strategie: per fare centro devi metterci il cuore ed essere sincero». 
Ma lei è mai stato molestato? «Lo confesso: mi sono sempre augurato che una bella donna mi si offrisse, magari in cambio di un lavoro. Ma nessuna mi è mai saltata addosso. Peccato».