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 2018  novembre 27 Martedì calendario

In morte di Bernardo Bertolucci

Roberto Escobar per il Sole 24 Ore

Sedici film, da La commare secca (1962) a Io e te (2012), più un episodio di Amore e rabbia (1969). Questo ci lascia Bernardo Bertolucci. Ora che il suo lavoro viene consegnato alla storia del cinema, in primo luogo non ci viene alla memoria la potenza narrativa di Novecento (1976) o della parte più “grossa” di L’ultimo imperatore (1987). Di questo, in particolare, preferiamo invece ricordare un’emozione piccola, intensa come un gioco di fanciullo.
Non la fine della dinastia Ching, non la grande rivoluzione, ma un grillo ci sembrò tanti anni fa, e ancora ci sembra, il cuore del film. Pu Yi bambino ne è affascinato, mentre riceve il primo omaggio nella Città Proibita, e dopo sessant’anni di nuovo si incanta di fronte a un altro grillo che esce da una scatolina. Pu Yi è stato bambino “prima della rivoluzione”. Allora la vita era dolce, nessuno sa quanto dolce, tra chi non l’abbia vissuta. Così suonano parole famose di Charles-Maurice de Talleyrand, la cui suggestione sta già nel titolo del secondo film di Bertolucci (1964). Prima, appunto: in Strategia del ragno (1970) è il tempo mitico del padre, il mistero che chiama Athos Magnani; in Ultimo tango a Parigi (1972) è il passato, alluso e taciuto, di Paul; in Novecento è il mito familiare di Alfredo Berlinghieri. 
In quei film il prima è tanto sognato quanto colmo d’angoscia. Athos è catturato nella sua tela, Paul ne è attratto come da un abisso, Alfredo lo sente sprofondare.
Anche il prima di Pu Yi è dolce solo nel sogno. Come per Athos, per Paul, per Alfredo, anche per lui è il luogo dove nasce il nulla. A partire dal tempo “prima della rivoluzione”, tutto il suo essere è nulla. La sua vita non è sua. Da bambino viene separato dal mondo e dalla madre, poi dal seno della nutrice, sostituito dalle “madri” (le spose dei precedenti imperatori). Non gli è stata insegnata la smisuratezza del potere. Gli è stato insegnato il nulla come condizione dell’essere, a lui come a tanti altri personaggi di Bertolucci. E questa tragica polarità tra essere e nulla sta nelle immagini del film, ora sontuose e vuote come in un delirio, e ora scarne e “vere”, ma alle prime legate da un rimpianto assurdo.
Che ci sia poco o molto di autobiografico, in questo? Che ci siano l’anima e la crisi non solo di un poeta, ma anche di una generazione nata un po’ “prima della rivoluzione”, e poi dominata dal sogno di sfuggire al nulla servendo il Nuovo che sarebbe arrivato, se solo lo si fosse voluto?
Tutto il cinema di Bertolucci nasce e “soffre” dentro la suggestione talleyrandiana del film del 1964, orfana della dolcezza che aveva la vita “prima”. Una crisi, questa, che si è espressa capovolta e negata nei suoi film politici - nei migliori come La strategia del ragno (1972), e nei peggiori come Partner (1968) e Il conformista (1970) -, e che si coglie nei grandi piccoli film nascosti nei suoi film più grossi, ma meno grandi.
La stessa dicotomia fortunata attraversa Il piccolo Buddha (1993), che si apre come una fiaba: «C’era una volta…». Al di là di temi iperbolici come la reincarnazione, al di là di una cultura troppo grande per stare in un film, la sua grandezza a noi pare viva nello sguardo che si posa sui bambini, sul loro valere per noi come un’impossibile vittoria sulla morte.
La tenerezza contenuta con cui Bertolucci osserva i tre piccoli protagonisti, la dolcezza con cui accenna ai giovanissimi allievi dei monaci buddisti, l’insistenza delicata con cui si sofferma sulla nascita di Gautama, questo è il senso più profondo di Il piccolo Buddha, capace da solo di giustificare quel «C’era una volta...».
Alla fine di L’ultimo imperatore, come se il tempo non fosse trascorso, il vecchio Pu Yi ritrova un grillo, paradossalmente “quel” grillo, e lo porge a un fanciullo, affascinato come fu lui sessant’anni prima. Poi scompare, scegliendo d’essere per sempre fanciullo, aperto alla meraviglia del mondo come un fanciullo. Così come il tempo, che cosa è il cinema, se non gioco di fanciullo?

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Paolo Mereghetti per il Corriere della Sera

«Se potrò ascolterò le tue parole», rispondeva Bernardo Bertolucci agli auguri per il suo compleanno (il 16 marzo) in cui lo esortavo a non farsi abbattere dalla malattia — un tumore al sistema linfatico — e a tornare al lavoro. Aveva anche iniziato a pensare a un nuovo film, ma l’aggravarsi improvviso della sua condizione se l’è portato via ieri, nella sua casa romana di via della Lungara. Con lui se ne va un grandissimo del cinema italiano, l’unico ad aver vinto un Oscar per la regia (per L’ultimo imperatore), ma soprattutto scompare l’ultimo paladino di un cinema che non voleva mai abdicare alle sue ambizioni: di grande spettacolo e di grande cultura, specchio privilegiato per fare i conti con la realtà (i suoi furono spesso affreschi storici: Il conformista, Novecento, L’ultimo imperatore, Piccolo Buddha, The Dreamers) ma anche scavo nelle contraddizioni umane (Prima della rivoluzione, Strategia del ragno, Ultimo tango a Parigi, L’assedio, Io e te) e sofferto ripensamento sulla famiglia (La luna, La tragedia di un uomo ridicolo — il meno capito e più sottovalutato — Io ballo da sola).

Con il rischio, catalogandoli così, di perdere la ricchezza e la complessità di un’opera dove si intrecciano psicoanalisi e politica («ho preso la tessera del Pci e sono entrato in analisi nello stesso anno»), letteratura e cinefilia (la Nouvelle Vague e Godard su tutti), sogni di gloria (girando Novecento si sentiva «onnipotente e megalomane») e ammissioni di sconfitta («perverso e infantile» disse di Partner, il suo film più godardiano e sessantottino). E naturalmente Verdi e il melodramma italiano, colonna sonora perpetua dei suoi film, esempio perfetto di come fondere epicità e spettacolo, emozioni e riflessioni.

Nato il 16 marzo 1941 a Parma, figlio del poeta Attilio e fratello maggiore di Giuseppe (anche lui poi regista), Bertolucci segue la famiglia a Roma e si iscrive a Lettere ma l’amicizia con Pasolini lo spinge al cinema: assistente per Accattone, passa alla regia nel ’62 con La commare secca, su sceneggiatura dello stesso Pasolini. Ma è con Prima della rivoluzione (1964), selezionato alla Quinzaine di Cannes, che si fa notare con una riflessione sincera e coraggiosa sulla difficoltà di essere coerente con i propri ideali, raccontando le tante contraddizioni di un giovane che vorrebbe ribellarsi al matrimonio imposto e «tradire» la propria classe.

Dopo un documentario per l’Eni (La via del petrolio, ’67) e Partner (1968) un film troppo debitore di troppe influenze (Living Theater, Godard, Dostoevskij), trova una più compiuta strada espressiva con Strategia del ragno (1970), prodotto dalla Rai a partire da un racconto di Borges, su un figlio alla ricerca della vera identità del padre, per arrivare con Il conformista (1970), tratto da Moravia, alla messa a punto di uno stile dove la cinefilia si mescola a una ambizione spettacolare che la fotografia di Vittorio Storaro sa esaltare alla perfezione.

Il 1972 è l’anno di Ultimo tango a Parigi, dove si mescolano ancora una volta passioni contraddittorie, memorie cinefile e riferimenti letterari (Sade e Bataille), capaci di parlare della solitudine e della distanza fra i sessi, anche se le ambizioni furono subito sovrastate dallo scandalo che costò a Bertolucci la perdita dei diritti civili per cinque anni. Il successo, che si misura anche con una parodia cinematografica (Ultimo tango a Zagarol con Franco Franchi), fu comunque immenso e convinse la Paramount a finanziare con la Pea Novecento (1976), utopico ponte «tra il cinema americano e il comunismo». Il film successivo, La luna (1979), assomiglia a una specie di ripiegamento, come se Bertolucci sentisse il bisogno di una «piccola storia», quella del tormentato rapporto tra un figlio e la madre cantante lirica (ancora psicoanalisi e ancora Verdi). Un «piccolo» film è anche La tragedia di un uomo ridicolo (1981), che permette a un regista rimasto sempre lontano dal cinema politico di raccontare con grande lucidità l’Italia di quegli anni.

L’insuccesso commerciale spinse Bertolucci all’estero, dove girerà una specie di trilogia orientalista che lo consacrerà internazionalmente: L’ultimo imperatore (1987, 9 Oscar su nove nomination), Il tè nel deserto (1990, tratto da Paul Bowles) e Il piccolo Buddha (1993). In patria tornerà nel 1996, con Io ballo da sola, sull’ingresso nell’età adulta di una diciannovenne e poi con L’assedio (1988) sull’amore tra un musicista e una studentessa africana, mentre ambienta a Parigi The Dreamers (2003) sullo sfondo del Sessantotto.

A fermarlo ci prova un’operazione non riuscita alla schiena che lo obbliga su una carrozzina: riesce lo stesso a girare Io e te (2012), dove un adolescente e la sorellastra nascosti in una tana-cantina cercano la forza per tornare ad aprire gli occhi sul mondo. Che la malattia chiuderà tragicamente al regista senza permettergli di realizzare altro.



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Natalia Aspesi per la Repubblica
Quarantasei anni dopo lo scandalo, 42 dopo la condanna definitiva e il rogo purificatore, 31 anni dopo l’assoluzione, Ultimo tango a Parigi restaurato, senza tagli, nel maggio scorso è tornato nei cinema, a Milano alla Fondazione Prada, Germano Celant a presentarlo assieme al suo autore, Bernardo Bertolucci, sulla sua carrozzella, smagrito, la bella faccia stanca, oppresso forse dal dover parlare per l’ennesima volta di questa meraviglia dannata. Intatta anzi più stordente la bellezza del film, la sua storia, i suoi colori dorati di ombra e penombra, quello straziante Marlon Brando di cui finalmente si sente la vera voce soffice di dolore, il corpicino adolescente e impuro di Maria Schneider, che gioca pericolosamente e altezzosamente con quello sconosciuto, di lei tanto più vecchio.
Quando uscì nelle sale era il dicembre del 1972, anno drammatico nel pieno della strategia della tensione e del primo rapimento delle Br: eppure improvvisamente, un film divenne il capro espiatorio di tanta confusione e pericolo; giornalisti, critici, partiti, magistrati, ministri, vescovi, scrittori, persino il presidente della Repubblica inscenarono una durissima guerra attorno al cosiddetto comune senso del pudore che una sodomizzazione in cui il sodomizzatore non si toglie né slaccia i pantaloni, avrebbe violato: libertà di espressione o crimine, sempre in nome della difesa del fanciullo che tanto il film non poteva vederlo essendo proibito ai minori? Il negativo fu bruciato, Bertolucci condannato alla galera con la condizionale. Anni di battaglie, ricorsi, nuovi processi, interrogazioni parlamentari perché il sano popolo italiano non fosse lordato da una pratica demoniaca di cui nella realtà non era certo ignaro. Per anni, quello che era stato un grande film dolente con un Brando al suo culmine, perseguitato poi come nessun altro, era ed è ricordato meschinamente per la cosiddetta "scena del burro": anche adesso che l’autore è morto, da chi probabilmente non l’ha mai visto. Anni dopo Maria Schneider attribuì la sua vita difficile a quel celebre film, e soprattutto a quella scena torbida in cui piange sul serio, ma da cui non ha il coraggio di fuggire.
Quando poi, nel 2011, a soli 57 anni, l’attrice muore, Bertolucci parla, ma ognuno interpreta le sue parole secondo il proprio pensiero: lo aveva ideato Brando e il regista non si oppose, era sulla sceneggiatura o non c’era, non glielo avevano detto ma non si ribellò, fu sostituita da una poverina o invece no. Fu comunque l’uso anomalo del panetto di burro a entrare nella storia del cinema e del mercato caseario: o anche delle istruzioni per l’uso, mentre la povera Maria umiliata, con tutto il suo rancore, è stata dimenticata.
Adesso, tanti anni dopo, nessuno si è offeso, neanche le signore più timorate, nel vedere in televisione A very english scandal, in cui l’amabile Hugh Grant travestito da Jeromy Thorpe, il politico inglese molto gay, sostituisce il burro con apposita crema. Il protagonista di Ultimo tango è un Brando in decadenza, stempiato, ingrassato, già allontanato da Hollywood, eppure mai così carnale: per sempre irraggiungibile immagine del peccatore con cui condividere finalmente ogni tipo di peccato. Adesso rivedendo questo film eterno, quel sesso imposto e ricambiato dice altro: dice che il dolore estremo di una perdita incomprensibile, come il suicidio di una moglie, non può sfidare l’indifferenza, la curiosità, il potere della giovinezza, senza perdersi; che la supremazia fisica del maschio è un’illusione, se poi a decidere è il più forte, la vittima molto consenziente sino a che il gioco è marginale alla propria vita, che è altra. Nel film si sa che è l’uomo il perdente, nella realtà a perdere è quasi sempre la donna.

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Gloria Satta per Il Messaggero«La morte di Bertolucci è la morte di una generazione, la nostra, che sta scomparendo naturalmente: siamo rimasti in pochi», dice Marco Bellocchio, addolorato per la perdita dell’amico-nemico, sempre frequentato e sempre rispettato. Bernardo e il regista di Nel nome del padre si conoscono oltre mezzo secolo fa, condividono furori cinematografici e censure (rispettivamente per Ultimo tango e I pugni in tasca), sono entrambi stimati da Pasolini, litigano per via della politica (comunista il primo, maoista il secondo) e nel corso degli anni s’incrociano a più riprese in quel cinema che ha consacrato entrambi. Nel 2011, a Venezia, è proprio Bertolucci a consegnare il Leone alla carriera a Bellocchio, oggi 79. 
Dove vi siete conosciuti esattamente? 
«Al Centro Sperimentale nel 1962. Bernardo mi fece i complimenti per il mio saggio di diploma. Poi abbiamo vissuto una storia parallela scandita non tanto da rivalità quanto da contrapposizioni. Scherzavamo sulle nostre rispettive città, la mia Piacenza e la sua Parma: Di Piacenza l’Italia ne fa senza, fa dire Bertolucci al personaggio di un suo film». 
E Pasolini come entra nel vostro rapporto? 
«A metà degli anni Sessanta, quando avevo appena girato i Pugni in tasca, ci presentò al pubblico come le nuove promesse del cinema italiano. Per un certo periodo le nostre carriere sono andate avanti parallelamente, poi Bernardo prese la strada internazionale». 
E lei cosa pensò? 
«Per quel sorpasso provai nei suoi confronti una forte invidia che è negazione, ma anche riconoscimento del valore dell’altro...poi tutto si è come tranquillizzato. Strade diverse, obiettivi diversi, risultati diversi. Ma ci siamo sempre rivisti pacificamente». 
Cosa pensò quando la magistratura mandò al rogo Ultimo Tango?
«Fu una vicenda dolorosa, ma anche una mezza pagliacciata. Dimostra ancora come è cambiato il costume: sia il film di Bernardo sia I pugni in tasca, che rischiò di venire ritirato, oggi sono considerati per tutti». Quali sono i film di Bertolucci che preferisce? 
«Strategia del ragno, Il Conformista e Ultimo tango. Dopo quei film, abbiamo preso strade professionali diverse». 
Quando ha visto il suo collega per l’ultima volta? 
«Qualche mese fa, alla cena per il restauro di Novecento. Era sofferente, ma pieno di progetti. Mi colpì la sua tenacia». 
Con la scomparsa di Bertolucci, cosa perde il mondo? 
«Un modo di fare cinema totalizzante, legato alla nostra generazione. È importante preservarlo oggi che i tempi cambiano in tutte le arti e le serie tv rischiano di schiacciare il cinema. È anche per Bernardo che bisogna rimettersi al lavoro, che altro si può fare? Dobbiamo continuare a vivere con la vitalità che ci resta».