la Repubblica, 26 novembre 2018
Il dizionario inesistente di Stefano Massini
La prima parola che mi sono inventato per questo Dizionario nasce dall’incredibile storia di uno sconosciuto marinaio americano di diciassette anni, Charlie Bud Cowart. Corpulento, massiccio, perfino elefantiaco in quel suo camminare sempre proteso in avanti, Charlie era una prova vivente di quello strano meccanismo naturale per cui i maschietti approdano alla maturità dopo una lunga fase larvale, in cui finiscono in genere per assomigliare a gnomi sgraziati, per giunta un po’ ottusi. Con tutto che era arruolato nella Marina degli Stati Uniti, la recluta Cowart sembrava dunque più che altro un tozzo folletto marinaio: nel suo viso tutto guance trovavi quella vaga sensazione di narcosi che spesso distingue gli adolescenti, come se un misterioso velo li separasse dal mondo esterno.
Charlie si sentiva da sempre come uno rimasto sulla porta, senza né entrare né uscire, e di questo limbo aveva fatto il proprio domicilio. Che poi la forza fisica non è che gli mancasse: Charlie gareggiava nei tornei di pugilato, dove mostrava perfino qualche dote innata. Ma era come se fuori dal ring non gli riuscisse proprio sferrare i suoi colpi: troppo complesso scegliere l’avversario nel chiasso di ogni giorno, laddove invece la boxe te ne presenta uno alla volta senza neanche la fatica di giustificare le botte. Pertanto, rassegnato, il nostro buon ragazzo si accontentava di sporadici brividi di vita solo quando indossava i guantoni, mentre tutto il resto gli scorreva intorno quasi non lo riguardasse. Quando non indossava la divisa d’ordinanza, egli usciva sempre con la stessa casacca di lino, sia che piovesse, tirasse vento o si annunciasse la canicola più impietosa dell’anno. E così come non cambiava mai l’abito, a restare identica era anche quell’espressione del viso, gioviale ma distante, candidamente disinteressata. Fu appunto con questa consueta foggia che Charlie Cowart si presentò con gli altri a Camp Kearney, senza minimamente immaginare che cosa lo aspettasse in quell’11 maggio 1932: a mezz’aria stava sospeso l’USS-Akron, il gigante dei dirigibili, vanto dell’aeronautica americana. Un bestione volante di 785 piedi, letteralmente immenso, nella cui pancia si narrava trovassero posto almeno cinque P26 pronti a sferrare l’attacco, cosicché l’Akron era noto a tutti come la portaerei dei cieli. Era dunque per questo che l’esercito li aveva convocati a Camp Kearney: ognuno venne assegnato a una fune numerata, a Charlie Cowart toccò la numero 14. Come formiche, i giovani marinai si misero febbrilmente all’opera richiamando sugli argani le corde e urlandosi il ritmo dell’avvolgimento. Osservarli era un autentico spettacolo, tanto che la moltitudine dei curiosi scoppiò più volte in un applauso di commossa approvazione. Il fatto è che anche gli applausi hanno un linguaggio tutto loro: come dalle intonazioni dell’umano parlare, è possibile percepirvi infinite gradazioni e sfumature di senso. Quel giorno, per esempio, fu chiaro a tutti quando il battito di mani perse la tinta smagliante dell’elogio per convertirsi in incoraggiamento.
Ce n’era bisogno. Perché il cielo da limpido si era fatto lattiginoso, e a complicare l’ormeggio ci si era messo pure il vento. Per un paio di volte l’Akron si spostò visibilmente su un lato, ma il reticolo delle corde seppe rimetterlo in posizione fra le grida sgolate degli ufficiali a terra. Durò tuttavia pochissimo. Perché una raffica improvvisa, molto più forte, fece perdere il controllo delle funi laterali a buona parte delle reclute, e il dirigibile si alzò in verticale – come un aquilone da bambini – tenuto solo dal cavo principale. Il grandioso erede dei fratelli Montgolfier era allo sbando, in balia delle correnti d’aria, ed essendosi disposto a capofitto, stava rovesciando a terra tutta l’acqua delle sue zavorre, per cui diveniva ogni minuto più leggero e incontrollabile, con tre o quattro marinai che precipitavano al suolo mollando la presa delle funi. “Tagliate il guinzaglio!” urlò qualcuno, per cui un marinaio accorse con un’ascia, e vibrò il colpo sul cavo d’ormeggio, quello che di fatto proibiva all’Akron di salire ancora più in alto. Fu così che lo persero davvero: il dirigibile finì fuori controllo, lo videro salire in alto e fluttuare come una foglia nel vento.
Si fece silenzio, un silenzio rarefatto e inutile, finché – dopo varie ore – qualcuno afferrò un binocolo e alzò il dito indicando un punto sotto l’Akron, ormai a tantissimi piedi da terra... Oddio. La recluta Charlie Bud Cowart era rimasta incredibilmente attaccata alla propria corda: era riuscito a legarsela al bacino, e da ore volteggiava in aria, ad altezza indescrivibile, sempre maggiore, fino ad arrivare a duemila piedi, là, dove nessuno si avventura da solo.
Troppo piccolo per essere avvistato da terra a occhio nudo, Charlie era stato davvero, per ore, dimenticato dal mondo: nessuno si era più chiesto di lui, nessuno aveva notato la sua assenza, nessuno aveva percepito le sue grida dall’alto, mentre veniva sbattuto in ogni direzione dal vento. Noi tutti cerchiamo fra gli uomini la conferma del nostro vivere, il riflesso di noi nello sguardo altrui, che appone il sigillo alla certezza dell’esistere. Ma cosa avviene se la comunità umana perde memoria di noi, se a un tratto ci ignora, se tutto ciò che è correlato al nostro piccolo caso sembra perdersi in uno spazio infinito, in una terra di nessuno? Fra tutte le storie che ho avuto modo di raccogliere, quella di Charlie racconta più che mai il valore autentico della parola solitudine. Essa non significa isolarsi dagli altri, quanto percepire che si abita uno spazio diverso da quello di tutti, che si è altrove, a duemila piedi, appesi a una fune, e nessuno sembra accorgersene. Cowart venne soprannominato, da quel giorno, “The Attached”, ovvero l’attaccato. Vi propongo dunque la parola attacismo: se vorrete, indicherà lo stato d’animo di chi si sente, all’improvviso, dimenticato dal resto del mondo. In balia di una fune, dove non c’è che il vento.