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 2018  novembre 26 Lunedì calendario

L’era dell’insulto libero

Che stronzata di libro, cioè, non il libro: l’operazione commerciale. L’editrice Il Saggiatore ha preso un linguista pure di quelli eclettici (ordinario a Cagliari, garante per l’italianistica in Slovacchia, consulente per la Treccani e per la società Dante Alighieri) e poi ha titolato il suo libro «Sciacquati la bocca», sì, ma poi in copertina la scritta più grande (enorme) è «Keep calm and va a cagher», così, tanto per farne un libro feticcio, uno di quelli che il pirla milanese può esporre o regalare solo per il titolo, che poi i libri mica si leggono: poi però lo apri e, come a smaltire il complesso di colpa, il povero autore si dilunga nella genesi della volgarità contemporanea passando dagli angeli priapeschi di Leonardo all’arcaico gesto dell’ombrello sino al dito medio già in voga ai tempi dei romani, e, ovviamente, nella Commedia di Dante, dove c’è sempre tutto. Il linguista fa il simpatico ma resta un linguista, col dettaglio che il suo libro in realtà è destinato a un pubblico diverso da quello idiota che lo comprasse e che lo regalasse magari a Natale, sommo auspicio de Il Saggiatore. Dopodiché, avrete notato, in questa colonna abbiamo già scritto «stronzata», «pirla» e «idioti» senza che questo riveli assolutamente nulla della tanto evocata «pancia del Paese», evocata, cioè, perlomeno nei risguardi di copertina del libro sempre per travestire un libro accettabile da non-libro, tipo molti libri che vanno oggi. Sereni auguri a Il Saggiatore e solidarietà all’autore Massimo Arcangeli, che si sbatte per paginate ma in realtà della famigerata pancia del Paese non ci fa capire assolutamente nulla: sia perché non è il suo lavoro, sia perché è dall’invenzione della televisione che le antenne hanno sostituito lo stomaco nel recepire e metabolizzare ciò che infine, beninteso, passa e si volatilizza pur sempre dagli intestini.

LA PANCIA NON C’È PIÙ
Ma con le derive del politicamente corretto e con la famigerata «Italia dei social» ecco che la pancia non c’è più (citazione) e cioè non conta più, perché non c’è più storia, non c’è più origine e percorso, c’è solo un apolide analfabetismo funzionale che ha superato da un pezzo anche la saggezza del citato Quinto Tullio Cicerone («Quello che siamo davvero vale moltissimo», dice nel libro, «ma l’apparenza, in una faccenda di pochi mesi, sembra contare di più») e ci lascia, questa non-lingua per orecchianti, al nostro falso quotidiano: «Io sono la mia fiction», direbbe Roberto D’Agostino, questo nell’era delle fake news dove è andato al governo il partito del «Vaffanculo», e infatti ci stiamo andando. Detto questo e prescindendo dal libro - del quale non dovevamo neppure parlare, Arcangeli ci scusi - niente più dell’insulto si è fatto esercitazione di relativismo purissimo. Tutto è insulto, nulla lo è. Tutto è sdoganato, niente lo è. Lo scrivente è appena stato sospeso da Facebook (per un mese, hanno detto) perché in un commento aveva scritto questa frase: «Non so se sei cretina, ma un’idea, dall’uso che fai delle faccette, me la sono fatta». È un insulto. È un insulto perché la destinataria (mai vista: un ectoplasma telematico) l’ha giudicato tale, e ha chiesto provvedimenti. Perché l’insulto è un’opinione. Insultiamo senza neanche saperlo, il nostro stile di vita può risultare un insulto, la nostra sola esistenza o cultura può essere un insulto. E intanto, nei bassifondi del quotidiano, ciò che per uno è un semplice intercalare linguistico diviene per un altro un insulto sanguinoso.

LA PERCEZIONE
Non ci sono regole, e tutto sommato - lo scrivo dopo una vita di querele prese - non c’è nemmeno una vera giuriprudenza che orienti. Quest’anno ho lavorato quotidianamente a una trasmissione su Radio Monte Carlo - una delle emittenti più storicamente conservatrici, perbeniste, a tratti bacchettona - e non c’è stata puntata a cui non siano seguite proteste per il linguaggio adottato e soprattutto «gli insulti». Quali? Si giunse a chiedere direttamente agli ascoltatori che cosa considerassero tali: la risposta fu tutto, non c’era spoliazione possibile, perché l’insulto era solo il disturbo soggettivamente avvertito da chi, in quel momento, aveva deciso di sintonizzarsi su una determinata frequenza di vita. È il pubblico, è il destinatario che fa l’insulto, laddove le parole e le espressioni ormai svolazzano iperleggere, sradicate, intercambiabili, svuotate di peso culturale e storico, voci qualsiasi in un parolaio senza chiaroscuri su cui surfiamo senza mai guardare sotto il pelo dell’acqua. Così tutti offendono tutti e nessuno si offende più: nazista, fascista, razzista, antisemita, mafioso, hitler, scemo: non alla comprensione autentica bensì alla magistratura abbiamo delegato la decisione su che cosa sia lesivo della nostra dignità. Non si dice più «mi hai offeso», si dice, al limite, «è un reato». A far la differenza dovrebbe esser rimasto solo il pulpito, il chi sia a dire che cosa. Se non fosse che anche quello – il chi e il che cosa – si confonde in un tutto che è uguale a tutto, dove la differenza tra vero e verosimile diviene facezia è ogni forma di comunicazione si è fatta satira di se stessa. Sindaco anziché sindaca, e parole come cancro, cieco, sordo, muto, clandestino, cretino, demente, disturbato, frocio, gay, grasso, handicappato, lesbica, malato, mongoloide, nano, negro, paralitico, povero, razzista, fascista, spastico, vecchio, zingaro: un campionario in cui ogni lettore avrà provato fastidio per l’una o per l’altra parola, mai tutte, mai nessuna, mai secondo una regola che valga uniformemente: perché diversa è la biografia, l’estrazione e nondimeno l’incazzatura contingente. Che stronzata di libro, che stronzata di articolo: siete voi a decidere, ma in fondo che v’importa, è lo stesso.