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 2018  novembre 26 Lunedì calendario

La verità sui furbetti del cartellino

Ci sono luoghi comuni consolidati da simboli indistruttibili. E allora ecco il dipendente del municipio di Boscotrecase (Napoli) che entra nell’inquadratura impugnando svariati badge con un cubo di cartone forato sugli occhi, a nascondere il volto. Oppure l’icona assoluta del presunto assenteismo patologico, il vigile di Sanremo che timbra in mutande e torna nel suo alloggio posizionato a pochi metri, senza trascurare gli svarioni di maggio alla Reggia di Caserta o delle scorse settimane a Cefalà Diana nel Palermitano.

Via un dipendente su diecimila
Ma cosa succede davvero ai famigerati furbetti del cartellino, definizione tanto logora da risultare ormai nauseante, dopo l’overdose di filmati offerta quando si scoperchia lo scandalo del momento? Soprattutto: quali sono le reali sfaccettature del fenomeno, aldilà delle vampate mediatiche?
L’approfondimento de La Stampa, basato sulla rielaborazione dei dati grezzi raccolti dall’Ispettorato della funzione pubblica, e sugli interventi di qualificati specialisti, certifica in primis che il numero dei licenziati per motivi disciplinari sul totale dei dipendenti pubblici è residuale: uno ogni 10.015 nel 2017 (lo 0,009%), mentre nel 2016 erano stati 1 ogni 9.438 e cinque anni fa eravamo a quota 1 su 16.246 (lo 0,006%). Più significativa, ma altrettanto eloquente d’un epilogo che si contrappone all’immaginario collettivo, è la percentuale dei procedimenti disciplinari che si chiudono con l’allontanamento del lavoratore: 3,77% nel 2017, in calo sull’anno precedente dopo un trend in crescita dal 2,89% del 2013 al 3,79% del 2016. Da qualunque prospettiva la s’inquadri, ordini di grandezza a dir poco marginali. Sebbene le norme varate nell’ultimo biennio abbiano stretto i tempi dell’accertamento, si scopre che talvolta le inchieste giudiziarie sono nemiche delle sanzioni ponderate e incisive.
Esistono differenze notevoli, e inaspettate, fra i diversi enti e a breve assisteremo al terzo intervento «rivoluzionario» da dieci anni a questa parte in materia di contrasto all’assenteismo doloso. La guerra a fannulloni e/o furbetti è un cavallo di battaglia d’ogni ministro appena insediato al vertice di Palazzo Vidoni, dove il dicastero che coordina la pubblica amministrazione ha sede. I passaggi cruciali finora sono stati due. 
Ossessioni, leggi e politica
Nel 2008 con Renato Brunetta (allora Popolo delle Libertà, governo Berlusconi) autore d’una riforma che ha allungato l’orario di reperibilità dei lavoratori malati, da 4 a 8 ore quotidiane: s’innesca così il calo costante d’influenze e malesseri (-10,6% solo nel 2017 sul 2016), mentre sul piano repressivo non cambia granché. Fra 2016 e 2017 con Marianna Madia (Pd, esecutivi Renzi e Gentiloni) si materializza il bisturi sui tempi dell’azione disciplinare: sospensione a 48 ore dalla violazione, licenziamento in 30 giorni e possibile punizione al dirigente che non denuncia, procedure che tuttavia non parrebbero aver prodotto un boom di sanzioni. 
E allora: i comportamenti criminosi sono soltanto una sensazione storta e dopata dai filmati tambureggianti su tg e siti? Il messaggio lanciato dal ministro Giulia Bongiorno, penalista scelta con benedizione della Lega, va in senso opposto e molto più allarmistico, e dall’insediamento in poi ha snocciolato bordate: «L’assenteismo fisiologico negli uffici pubblici è al 50%». 
«Comportamenti decennali»
Con ulteriori precisazioni dal suo staff, interpellato dalla Stampa: «Il dato degli ispettori è la punta dell’iceberg, l’Italia è un’altra e peggiore. E in base alle nostre nuove ricognizioni, chi viene colto in fallo lo stava facendo in media da 10 anni: innumerevoli mancanze non si traducono in contestazioni formali». Metà dei lavoratori, insistono, è incline a farsi gli affari propri. E quelli che vengono magari sanzionati per comportamenti estemporanei, con sospensioni o richiami, snobbavano orario e computer da tempo immemorabile. Entro marzo 2019, è l’ultima precisazione fornita da Palazzo Vidoni, sarà legge il ddl “concretezza” che contiene un capitolo sull’alt ai furbetti: sì alle impronte digitali per garantire scrivanie occupate, preferite ai rilevamenti sull’iride poiché troppo costosi. «Sebbene gli interventi nel mandato Madia siano stati efficaci nell’accelerare certi iter, generano benefici solo a valle della violazione e non la prevengono. Noi faremo in modo che le irregolarità non si compiano, arginandole a monte». Difficile che idee, statistiche e normative caldeggiate da ministero e ministro trovino riscontri nel sindacato, come certifica la posizione di Florindo Oliverio, responsabile nazionale della contrattazione enti pubblici per la Cgil. «Mi attengo ai dossier, dai quali deduciamo che l’assenteismo non è una piaga così diffusa e men che meno eclatante. Mi concentrerei su alcuni picchi nei giorni di malattia, ma qui ci sono strumenti in abbondanza per contrastare i medici conniventi». E aggiunge: «Resta il fatto che ogni politico ha come priorità il fronte poliziesco e non organizzativo. Esempio: la valutazione performance dovrebbe diventare un sistema per proporre e condividere gli obiettivi, non un verdetto promosso/bocciato; la formazione un momento di benessere e l’uso dei permessi brevi per sostenere visite o esami non va osteggiato come sta accadendo, con l’effetto di moltiplicare inadempienze più ampie». 
Il fallimento della “severità”
Lettura un po’ diversa dalla prospettiva del Forum pubblica amministrazione, società del gruppo Digital 360 e da trent’anni cerniera fra pa e imprese. «La sbandierata severità contro i furbetti - rilancia il presidente Carlo Mochi Sismondi - ha dato risultati secondari per non dire nulli. Ed è risibile pure la quantità dei licenziamenti legati alle strette della legge Madia, brillante invece nell’istituire il polo unico per le viste fiscali in capo all’Inps. Dove si registrano assenze fraudolente albergano omertà e consociativismo, vera piaga aldilà dei reati del singolo operatore». E, prosegue «le dichiarazioni di Giulia Bongiorno corroborano per ora la medesima area - controlli e punizioni - cui appartengono le norme varate dai predecessori,quindi tagliate sulla fascia dei comportamenti delinquenziali, ma lontane da quel 99,9% di lavoratori che in ufficio vanno e però sovente non è ben chiaro cosa facciano, in balìa di dirigenti scelti non per merito. Il pesce puzza dalla testa». Ci sono tra l’altro posti dove l’olezzo pare più forte, a giudicare dai dislivelli nel numero di licenziamenti per motivi disciplinari. 
Lo strano record all’Università
Emerge allora che nei ministeri si colpisce più che nei Comuni: oltre il 5% ogni anno (dal 2013) la quota di licenziati sul totale dei procedimenti nel primo caso, meno del 2% nel secondo. A riprova di come i medesimi Comuni, ancorché sovraesposti, siano in realtà i più virtuosi. Il maggior numero di porte in faccia in proporzione alle azioni avviate spunta dall’Università: 7,5% medio in 5 anni, 4 punti abbondanti sopra il trend generale del pubblico impiego. E il pressing dei magistrati? Più di danno che d’aiuto da quando esplode il bubbone, parola di Luca Failla, giuslavorista e fondatore dello studio Lab/Law di Milano. 
Pochi reintegri e cortocircuiti
«I licenziamenti - sottolinea Failla - parametrati alle violazioni reali, sono bassi perché la sensibilità d’un manager pubblico in materia è alquanto inferiore a quella d’un privato. E molti, nonostante i correttivi-Madia, usano ancora l’autorità giudiziaria da paravento: finché c’è l’indagine, dicono, noi non possiamo fare nulla». Ecco quindi l’effetto perverso: «Ministeri, atenei e municipi se hanno sospetti si rivolgono ai carabinieri e alle Procure, essendo gli unici titolari di sistemi invasivi e capaci di smascherare in fretta il malaffare. Ma poi il processo impaluda i tempi e offre alibi ai funzionari inerti». Basso è l’impatto dei reintegri via tribunale, sebbene talvolta coincidano con casi eclatanti, vedi l’impiegato di Vasto (Chieti) che rubava ed è stato riassorbito in organico perché non l’hanno cacciato subito, trasferendolo altrove e alleviandone implicitamente le responsabilità. Non esistono statistiche al dettaglio che incrocino licenziamenti e reintegri; ma le stime sovrapposte di più dicasteri e legali specializzati indicano un 50-60% di lavoratori espulsi che prova a rientrare con la sponda delle toghe, e meno del 5-10% ce la fa. Si vira perlopiù sulla transazione, visto che gli exploit sono in generale smaccati e i giudici poco inclini ad accreditare giustificazioni fantasiose: «Quando s’arriva in fondo a una causa su furbetti magari inchiodati dai filmati - sintetizza un avvocato che ha affrontato decine di contenziosi - i magistrati li considerano semplicemente fannulloni e non c’è margine». 
Per una fotografia emblematica si può rispolverare la retata di Sanremo inclusiva del vigile in mutande, 22 ottobre 2015: 200 dipendenti sotto inchiesta su 470 (35 ai domiciliari), 98 sospesi nelle prime settimane. Cosa resta a distanza di tre anni pieni? 32 licenziati in via definitiva, 23 dei quali hanno fatto ricorso, e un reintegro per vizio formale ovvero l’assenza d’una firma (a Boscotrecase, dove c’era l’uomo mascherato con il cartone, erano stati un paio a fronte di 25 misure cautelari). 
«Io, vigile in mutande»
In Liguria il processo penale è in corso, vicino alla sentenza per la trentina d’indagati principali, di fatto mai partito per un altro centinaio d’impiegati solo denunciati. La figura-simbolo, l’agente Alberto Muraglia, si proclama innocente «perché sì, ero in mutande ma il mio appartamento a pochi metri e mi stavo solo preparando, non sono tornato a dormire: ci stava una sospensione, non questo massacro. Io comunque ho retto la botta, mai pensato al suicidio come sei ex colleghi. Ora riparo elettrodomestici e lavoro per gli amministratori di condominio: è soddisfacente e guadagno più di prima. Certo, pochi giorni fa mio nipote è entrato da un parrucchiere, gli ha proposto di far riparare le forbici da me e quello gli ha risposto: “Tuo zio rubava da tutta la vita in Comune e ora lavora?”. Io non ho rubato, sia chiaro». 
L’incubo dei Comuni
Il sindaco Alberto Biancheri è meno battagliero: «Siamo stati collaborativi, pagando un prezzo altissimo. Ok che il sistema era radicato e andava rotto, abbiamo contribuito con segnalazioni ma lo Stato non ci ha sostenuto compensando le voragini in organico. Quasi il 33% fu sospeso ed è paradossale che la risposta giudiziaria sia stata meno incisiva della nostra». Come si prevengono le defaillance nei Comuni, i più gettonati se si parla di furbetti? Antonio De Caro, sindaco di Bari e presidente Anci: «Attenzione al qualunquismo: più un ente pubblico è piccolo e locale, più il rapporto con la cittadinanza è diretto e il ruolo del dipendente si avvicina a quello dell’amministratore». Ergo: «Occorre incentivare la partecipazione all’efficienza e sentirsi coinvolti in un progetto. Nei municipi ridotti, molti sanno che l’indolenza su una pratica potrebbe lasciare senza carta d’identità l’amico o il vicino. Gli atteggiamenti deviati, dai consuntivi, paiono più ricorrenti nel mare magnum delle mega-amministrazioni, ma parcellizzati. E non finiscono sotto i riflettori».