Corriere della Sera, 26 novembre 2018
La valchiria del solitario Beckmann
La prima moglie di Max Beckmann (1884-1950) è una cantante d’opera. Il pittore sposa Minna Tube nel 1906; avendo appena vinto il Premio Villa Romana della Deutscher Künstlerbund – che consiste in un soggiorno di studio a Firenze – la porta con sé in viaggio di nozze. Il «Paese dorato», come l’artista chiama l’Italia, lo affascinerà sempre. Nel 1904, scrive all’amico Caesar Kunwald: «Domani partirò da Ginevra e attraverserò a piedi le Alpi, passerò vicino al Monte Bianco e proseguirò per arrivare in Italia. È meraviglioso, ti dico, inoltrarsi così verso l’ignoto». Fra le sue mete, l’Italia sarà sempre privilegiata: Roma, Napoli, Rimini, Genova, Viareggio, Spotorno («Dipingo ritratti, nature morte, paesaggi, visioni di città che emergono dal mare, belle donne e immagini grottesche»).
Minna interpreta il ruolo di Brunilde ne L’anello del Nibelungo di Wagner e, anche se i due si separeranno nel 1925 – lui per sposare Mathilde von Kaulbach detta Quappi – nel 1948 Beckmann darà il suo volto a La valchiria, nel 1948, ispirata appunto alla saga del «Popolo delle nebbie» (qui a fianco un particolare).
Adesso il dipinto è esposto in Svizzera al Museo d’arte moderna di Mendrisio (sino al 27 gennaio), assieme a 29 olî – da Vecchio orto botanico, Periferia sabbiosa e Giorno di tempesta, del 1905, a Donna con maschera e Natura morta con strelitzie, del 1950, anno della morte – e a 3 sculture, 16 acquerelli e un corpus di 80 grafiche. In catalogo, testi di Siefried Gohr (curatore della retrospettiva), Stephan Lackner, Simone Soldini, Sebastian Oesinghaus e Christiane Zeiler. Distribuiti cronologicamente, i lavori permettono di seguire l’iter creativo dell’artista di Lipsia e la sua travagliata esistenza. Già durante la Prima guerra mondiale, il pittore tedesco – al fronte, reparto Sanità – era rimasto completamente sconvolto: per qualche tempo aveva abitato sopra un obitorio. Passeranno molti anni prima che possa riprendersi. Tutto gli appariva come un teatro, dove si svolgeva il «grande spettacolo della vita».
Dopo varie vicissitudini e dopo che gli viene impedito di insegnare – essendo considerata la sua, un’ arte «degenerata» – nel 1937 Beckmann lascia la Germania, dove non ritornerà più e, sino al 1947, ripara ad Amsterdam.
Il decennio trascorso in Olanda rappresenta uno dei periodi più fecondi dell’artista: lavora a 290 dipinti, per lo più di grande formato, e ad alcune serie litografiche. Temi: soggetti storici, scene di vita quotidiana, diversi autoritratti, personaggi femminili, acrobati di circo. In tutti aleggia il dramma dell’Europa di quegli anni, la sua crisi spirituale. Max rimane un pittore realista con un fortissimo senso drammatico. È vero che, per sua indole, rifugge gli avvenimenti politici, ma è anche vero che non fa nulla per evitarli. E ne riversa lo spirito nei quadri, in maniera quasi monumentale, forte, amara – mai elegiaca – talvolta in modo persino stridente, anche se, essendo alla fin fine un solitario, è lontano dall’indignazione d’un Grosz o dal realismo espressionista impietoso e violento di Dix: protagonisti, entrambi, della Nuova Oggettività.
Beckmann si ispira a modelli diversi da quelli dei suoi due contemporanei. I suoi punti di riferimento restano Bosch, Brueghel e Goya. Da Amsterdam, un transatlantico porterà Beckmann negli Usa, dove muore tre anni dopo: il 17 dicembre, infatti, dopo avere appena ultimato il trittico degli Argonauti, l’artista sta per recarsi alla mostra Arte americana d’oggi, in cui espone alcuni quadri, quando, d’un tratto, si accascia per strada. Come un personaggio dei suoi disegni.