La Stampa, 24 novembre 2018
Intervista a Elisabetta Sgarbi
Editrice, autrice, regista, curatrice di rassegne culturali. Elisabetta Sgarbi non sta mai ferma, come i suoi occhi inquieti e penetranti: una forza della natura appassionata e misteriosa, febbrile e riservata, le radici nella Bassa Ferrarese - famiglia intellettualmente esigente, fratello ingombrante - e la testa nella Mitteleuropa. «La forza viene da mia madre - dice lei -. È la stessa qualità di energia che ha mio fratello Vittorio. L’idea, se vuole tragica, di non avere tempo. È anche il motivo per cui dormo poco».
Editoria e cinema, immagine e parola scritta. Dove si sente di più a casa?
«Non scrivo, se non per motivi professionali. Lavoro con le parole altrui, le considero migliori delle mie. Le immagini sono invece uno spazio di intimità, non devo rendere conto a nessun altro. Sono uno spazio di libertà».
A breve al Torino Film Festival vedremo il suoI nomi del signor Sulcic:è incentrato sull’idea di confine, giusto?
«Ci sono i confini, certo, ma è soprattutto la storia di un uomo e una donna, di padri che cambiano nome, di fantasmi che tornano dal passato. Tutto parte da una ricercatrice dell’Università di Ferrara che risale a dei documenti conservati nel cimitero ebraico di Trieste. Trieste e Ferrara hanno in comune di essere state città fascistissime, con una ricca e importante comunità ebraica, tradita dalle leggi razziali. Sullo sfondo la grande Storia, i soprusi dei fascisti, le vendette dei miliziani di Tito».
C’è un parallelo tra la sua vita e le tematiche del film?
«Il film ha l’andamento di un sogno, di quei sogni di superficie che trasfigurano dati reali e li “montano” in modo da rispecchiare paure e timori più o meno noti. Ci sono immagini e nomi della mia famiglia, luoghi a me molto cari, a cominciare dalla casa di Ariosto di via Giuoco del Pallone a Ferrara di mia madre, la casa di Ro Ferrarese di mio padre. Ma tutto squadernato, appunto, come se fosse un sogno».
Lei è una sognatrice? Quanto conta quella parte di vita inconscia in una donna organizzata e attiva come lei?
«Sono, o penso di essere, una donna molto concreta. Ho ereditato da mia madre un certo intuito, che può rendermi irrazionale rispetto alla realtà dominante».
Le sono pesate le aspettative della famiglia? Come è riuscita a liberarsi da un percorso già scritto?
«Ho avuto in sorte due genitori straordinari, ma tutti rivolti verso mio fratello, che amo molto. Io ero piuttosto invisibile e quindi molto libera. Una volta soddisfatta la richiesta di studiare Farmacia all’Università, ho preso la mia strada».
Cosa resta in lei della farmacista? Il rigore scientifico?
«Un senso dell’ordine, della programmazione. L’editoria assomiglia per me a una preparazione galenica, di quelle che si facevano in farmacia quando ero piccola. Dosi di tante cose in maniera scelta»
Come editore come sceglie i libri da pubblicare? E i libri da leggere?
«Nella scelta di pubblicare un libro intervengono molti motivi. In sintesi amo pubblicare i libri che amerei leggere. E, per dovere e piacere professionale, leggo i libri che pubblico».
I suoi autori preferiti?
«Ho letto sempre molta poesia. Emily Dickinson, ma anche il mio vicino di casa Corrado Govoni (di Tamara, vicino Ro, dove ho fatto la farmacista da ragazza), Ernesto Ragazzoni, poeti crepuscolari, oltre ai classici. Mio padre aveva una memoria folgorante per i versi. La poesia era talmente incarnata in lui, da essere il modo privilegiato per raccontare le cose importanti del mondo. Ogni tanto emergeva dal silenzio e enunciava dei versi, guardando un fiore, delle stelle, un piatto. Nei Nomi del signor Sulcic c’è anche un segreto omaggio a lui: il film si chiude con i versi di un poeta ferrarese da lui molto amato, Ferraguti: “Portami via la memoria e non sarò mai vecchio”»
È appena terminata Book City. Cosa ne pensa delle fiere letterarie?
«Più ce ne sono e meglio è. Poi, come in tutte le cose, bisogna essere rigorosi a livello organizzativo e economico».
Lei è molto generosa culturalmente, ha sempre condiviso i suoi talenti con altri. Cos’è per lei il successo?
«Il successo non esiste. Il successo è successo, un passato più o meno ingombrante. Bisogna iniziare con ogni nuovo libro come se si iniziasse da zero. In fondo La nave di Teseo è un inizio assoluto, un avere azzerato il “successo”. Un editore poi non lavora per definizione al proprio successo - inteso come massima diffusione possibile del libro - ma a quello dei suoi scrittori».
Si sente femminista? Per una donna avere potere è diverso che per un uomo?
«Sono certa della superiorità femminile senza bisogno di essere femminista, né di rivendicarlo. Però conosco anche una “ferocia femminile” che non amo».
Lei ha fatto l’assessore, cosa ne pensa delle derive populiste della politica oggi? Si sente ancora a sinistra?
«Facevo l’assessore indipendente di sinistra, ma era un altro mondo. Io penso che ci siano argomenti fondamentali su cui dividersi: la redistribuzione della ricchezza, la centralità assoluta dei Beni Culturali, la scuola, l’Università, il diritto ad uguali possibilità di lavoro, l’accoglienza, la difesa dei corpi intermedi, a cominciare dal Parlamento. Tutti aspetti che vedo più a sinistra, ma magari la mia lente è deformata. Soprattutto non tollero la semplificazione. La politica è l’arte complicatissima di tenere in equilibrio molte cose. Per paradosso, do fiducia a un politico quando - oltre a fare promesse - dice anche che sarà molto difficile realizzarle».