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 2018  novembre 24 Sabato calendario

Un polemica tra Quirico e Jovanotti sull’Eritrea

L’attacco di Domenico Quirico
C’è un cantante, famoso, Lorenzo Jovanotti: il suo ultimo lavoro ripropone la milionesima versione del «chiaro di luna» e l’ambienta ad Asmara, capitale della africana Eritrea. Per favore: non venite a pispigliare la Solita Solfa, che, in fondo, sono solo canzonette e non vale la pena di far baccano. Scusa ormai rancida, oggi più che mai: con commedie e canzonette si fa politica, eccome, fin dal tempo di Alcibiade nell’Atene della prima democrazia. E i più accorti ad abbordarla da questo lato sono spesso proprio i tiranni.
Ottima scelta, Asmara, dal punto di vista scenografico per ragionar d’amore, per le architetture razionaliste al limite del metafisico, alla De Chirico per intenderci, lasciate lì come unico legato accettabile dal nostro colonialismo. Ma c’è un ma: che è appunto lo sfondo. Alcuni luoghi del mondo non sono neutri, un puro suggestivo palcoscenico che richiama l’idea della bellezza. Geroglificano più dell’obelisco di Luxor, hanno in sé significati e rimandi potenti e scomodi. L’Asmara è uno di questi, l’Africa è uno di questi: soprattutto oggi. È scenario di eventi che scatenano reazioni, umori, rifiuti, pregiudizi e giudizi: migrazioni che molti vorrebbero declinare e liquidare come animalesche transumanze, fanatismi, palpiti di società civile, gioventù divise tra rassegnazione e rivoluzione, modernità e regimi corrotti e implacabili.
L’Eritrea presenta appunto alcune di queste esorbitanti «criticità», come si usa dire con orribile parola. E’ un luogo da cui migliaia di giovani, come quelli che appaiono nel video di Jovanotti indaffarati in lustre e amorevoli melibee, tentano in tutti i modi di fuggire per trasformarsi, a rischio della vita, in viandanti senza diritti. Ne siamo buoni testimoni in Italia. Basta interrogarli nelle nostre strade per comprendere che hanno attraversato questa estrema odissea non certo per guardare il chiaro di luna da un’altra parte.
In più l’Eritrea, per annosa denuncia delle organizzazioni internazionali per i diritti umani, è luogo dove l’intralcio ai medesimi conosce sfumature assai irriguardose e totali. Tanto è vero che si è guadagnata la definizione, semplicistica ma efficace, di Nord Corea dell’Africa. Il fatto che il governo eritreo, che ha concesso con acuto fiuto pubblicitario il visto a Jovanotti, non sia altrettanto ospitale con i giornalisti dà forza a questi sospetti e a queste accuse di organiche illegalità.
E’ questa complessità simbolica che non dovrebbero mai dimenticare coloro che oggi sanno ancora suscitare emozioni e commozioni: appunto uomini di spettacolo e cantanti come Jovanotti. Che hanno preso il posto di scrittori e poeti. Incombe su di loro una responsabilità morale, gratificante ma onerosa, tener conto delle conseguenze che emozioni e messaggi trasmettono. E questo indipendentemente dall’argomento anche leggero che trattano. Anzi questo legame etico pesa ancor più se i temi sono superficiali. Il video di Jovanotti sarà cliccato da centinaia di migliaia di persone, ragazzi soprattutto, il suo pubblico abituale. Che non sono certo obbligati a informarsi sulle realtà africane compulsando «Nigrizia» o «Jeune Afrique». Ne ricaveranno una immagine distorta, parziale e quindi falsa: che l’Eritrea sia in fondo un luogo affascinante dove la vita è allegra e senza problemi. Un posto da turisti. E andranno a ingrossare, in questa epoca pericolosamente superficiale, il numero di coloro che, a torto, sostengono che gli africani stanno benissimo a casa loro e non hanno alcuna ragione per venire a turbare la pace di chi sta, per sua fortuna, dall’altra parte del mare.

***

La replica di Lorenzo Jovanotti 
Le ragioni che mi hanno spinto a girare in Eritrea sono di natura artistica, ma tengono conto anche del contesto sociale: non ci sono andato con leggerezza o peggio ancora con intenzioni negazioniste. Dell’Eritrea si parla pochissimo: non sono andato a fare un reportage giornalistico, ma ad ambientare un racconto visivo in un luogo che evocasse suggestioni precise adatte alla mia canzone, che è romantica, una canzone d’amore. Che non le è piaciuta. ok.
Esiste però un’intenzione mia a monte, che è quella di contribuire all’apertura attraverso il racconto delle dinamiche amorose in un’atmosfera «sospesa», come se avvenissero prima di un grande cambiamento. Di fatto col mio video non sto parlando del governo dell’Eritrea, ma di persone, e nello specifico di due persone, dei ragazzi protagonisti e della loro storia: l’amore è sempre la più potente delle forze a qualunque latitudine, in qualunque condizione. 
Sapevo della situazione del Paese. Nei giorni della mia permanenza l’ho approfondita parlando con più persone possibile. Ne sono tornato convinto che i problemi siano serissimi, ma che le cose possano cambiare. Servono gesti di apertura: se continueranno a esserci disinteresse generale, rimozione e chiusura da parte soprattutto della comunità internazionale, soprattutto di noi italiani, le cose non cambieranno mai. 
In questo senso il mio video vuole incuriosire, creare empatia, che è un elemento prezioso per poi volersi avvicinare, sapere di più. Il mio sogno è lo stesso di molti eritrei dentro e fuori dai confini del loro Paese: libertà, sviluppo, riforme, democrazia, lavoro, diritti, parità, opportunità, giustizia. Tantissime persone da giorni mi chiedono dove è girato il video, che Paese è, dove si trova, se si può visitare. Io questa curiosità la prendo come un fatto molto positivo. Mi hanno scritto esuli eritrei e italiani che hanno un legame familiare con quel Paese, tutti per dire che si sono emozionati.
Se il mio video genererà un po’ di interesse verso quella terra si aprirà un passaggio prezioso, quello legato anche alle emozioni, che mi auguro possa essere d’aiuto alla causa di chi crede che l’unica soluzione ai problemi sia guardare al futuro con speranza e progettualità.
Se la curiosità fosse anche solo turistica, andrebbe comunque a vantaggio degli eritrei e del cambiamento, perché lo sviluppo porta lavoro e circolazione di informazioni.
Il mio video è una storia d’amore, non vuole essere innocuo, al contrario, vuole evocare il più potente dei sentimenti, e metterlo al servizio dell’empatia tra gli esseri umani. Il resto non era e non è alla portata di un cantante di musica leggera. Tengo sempre a mente la lezione di Paul Simon e del suo album «Graceland», che registrò in Sudafrica in pieno apartheid. Nel disco il tema non era mai apertamente affrontato, ma quel disco, all’inizio criticato da molti per le stesse sue ragioni, incuriosì e affascinò così tante persone che il Sudafrica si trovò al centro dei pensieri di tanti, in tutto il mondo, anche e soprattutto di chi non era interessato direttamente alle grandi questioni di quel Paese. Quelle canzoni contribuirono in modo «poetico» al cammino verso il nuovo Sudafrica. Il mio caso è molto più piccolo e limitato, ma la lezione è sempre valida. Ed è parte del mio modo di intendere l’attività di artista. 
Le ragioni che mi hanno spinto a girare in Eritrea sono di natura artistica, ma tengono conto anche del contesto sociale: non ci sono andato con leggerezza o peggio ancora con intenzioni negazioniste. Dell’Eritrea si parla pochissimo. Non ero lì per fare un reportage giornalistico, ma per ambientare un racconto visivo in un luogo che evocasse suggestioni precise adatte alla mia canzone. Che è romantica, una canzone d’amore. Che non le è piaciuta, ok.
Esiste però un’intenzione mia a monte, che è contribuire all’apertura attraverso il racconto delle dinamiche amorose in un’atmosfera «sospesa», come se avvenissero prima di un grande cambiamento. Di fatto col mio video non sto parlando del governo dell’Eritrea, ma di persone, nello specifico di due persone, dei due ragazzi protagonisti e della loro storia: l’amore è sempre la più potente delle forze a qualunque latitudine, in qualunque condizione. 
Sapevo della situazione del Paese. Nei giorni della mia permanenza l’ho approfondita parlando con più persone possibile. Ne sono tornato convinto che i problemi siano serissimi, ma che le cose possano cambiare. Servono gesti di apertura: se continueranno a esserci disinteresse generale, rimozione e chiusura da parte soprattutto della comunità internazionale, soprattutto di noi italiani, le cose non cambieranno mai. 
In questo senso il mio video vuole incuriosire, creare empatia, che è un elemento prezioso per poi volersi avvicinare, sapere di più. Il mio sogno è lo stesso di molti eritrei dentro e fuori i confini del loro Paese: libertà, sviluppo, riforme, democrazia, lavoro, diritti, parità, opportunità, giustizia. Tantissime persone da giorni mi chiedono dove è girato il video, che Paese è, dove si trova, se si può visitare. Io questa curiosità la prendo come un fatto molto positivo. Mi hanno scritto esuli eritrei e italiani che hanno un legame familiare con quel Paese, tutti per dire che si sono emozionati.
Se il mio video genererà un po’ di interesse verso quella terra, si aprirà un passaggio prezioso, quello legato alle emozioni. Mi auguro possa essere d’aiuto alla causa di chi crede che l’unica soluzione ai problemi sia guardare al futuro con speranza e progettualità. Se la curiosità fosse anche solo turistica, andrebbe comunque a vantaggio degli eritrei e del cambiamento, perché lo sviluppo porta lavoro e circolazione di informazioni.
Il mio video è una storia d’amore, non vuole essere innocuo, al contrario vuole evocare il più potente dei sentimenti e metterlo al servizio dell’empatia tra gli esseri umani. Il resto non era e non è alla portata di un cantante di musica leggera. Tengo sempre a mente la lezione di Paul Simon e dell’album «Graceland» che registrò in Sudafrica in pieno apartheid. Nell’album il tema non era mai apertamente affrontato, ma quel disco, all’inizio criticato da molti per le stesse sue ragioni, incuriosì e affascinò così tante persone che il Sudafrica si trovò al centro dei pensieri di molti, in tutto il mondo, anche e soprattutto di chi non era interessato direttamente alle grandi questioni di quel Paese. Quelle canzoni contribuirono in modo «poetico» al cammino verso il nuovo Sudafrica. Il mio caso è molto più piccolo e limitato, ma la lezione è sempre valida. Ed è parte del mio modo di intendere l’attività di artista.