Tuttolibri, 24 novembre 2018
Banana Yoshimoto ha cambiato casa e qui racconta il suo trasloco
Ho traslocato un’altra volta. A una fermata di treno da Shimokitazawa. Quindi per me la città (possiamo chiamarla città?) più̀ vicina resta Shimokitazawa.
Ho la sensazione che sarà l’ultimo trasloco della mia vita e questo mi suscita emozioni diverse e profonde. L’idea che probabilmente è qui che morirò. La malinconia al pensiero che anche gli animali che vivono con me, un giorno, moriranno qui.
Il trasloco è stato una faticaccia, ma rispetto all’altra volta, quando niente è andato nel verso giusto, siamo riusciti a limitare i danni al minimo. Icchan e Masako, che sono venute ad aiutarci, si sono premurate di raccogliere tutti gli oggetti a cui tenevo di più̀ e trasportarli personalmente e con cura. Il carpentiere e il giardiniere, a cui mi rivolgo da sempre, hanno fatto un lavoro eccellente. Nonostante fosse pieno inverno, non si sono risparmiati e si sono occupati delle rifiniture e delle piante con la massima attenzione, come se la casa in cui stavano lavorando fosse la loro. Anche adesso, quando ci penso, mi viene quasi da piangere.
Appena ci siamo trasferiti nella casa nuova sono caduta dalle scale. Ero fisicamente esausta, sovrappensiero, e andavo di fretta perché dovevo correre in aeroporto. Ebbene, ruzzolai letteralmente giù̀ per le scale battendo con violenza l’osso sacro, e quando mi guardai allo specchio e vidi il segno che mi ero procurata rimasi di stucco (eh eh)! L’unica cosa bella fu che il cane, vedendomi piangere dal dolore, venne ad accucciarsi vicino a me, ma restava il fatto che non riuscissi a stare né seduta né in piedi e qualsiasi movimento facessi continuavo a pensare: «Che male...»
Potevo camminare, anche se con fatica, quindi andai lo stesso nell’Hokkaidõ. All’atterraggio lanciai un grido, in albergo fui costretta a letto dalla febbre ma poi, nonostante fuori infuriasse una forte nevicata e avessi l’umore sotto i piedi, come da programma andai a mangiare al Magic spice di Sapporo, la sede originaria di un ristorante di curry che c’è anche a Shimokitazawa. Il proprietario, il signor Shimomura, è un vero duro, uno che in passato fu sequestrato in Thailandia, che ha sviluppato poteri paranormali, ha avuto una vita difficile e a un certo punto ha capito che la sua missione era contribuire alla salute della gente con le sue zuppe al curry. Forse il guazzabuglio di luci del negozietto all’interno del ristorante riflette la meravigliosa complessità̀ del suo mondo.
Iniziò a piacermi ogni giorno di più. Quel sapore dolce ricorda una gentilezza antica. È sempre bello riuscire a vedere mondi creati da altri che prendono forma davanti ai nostri occhi. Quel ristorante è proprio così̀, se ne percepisce la storia. Non è nato in ossequio a un progetto preciso o a un’immagine vagamente collegata ad altre cucine asiatiche, ma da ragioni molto più̀ profonde. L’osso sacro mi faceva ancora male, ma in compenso era tornato il buonumore.
Perché quei piatti erano colmi d’amore. La premura con cui mi trattarono i miei amici, la gentilezza e l’incoraggiamento di Shimomura e di sua moglie, l’efficienza dei camerieri mi avevano colpita dritto al cuore. Fuori dalla finestra c’era una coltre bianca di neve, e io alla neve non sono proprio abituata, sarei potuta scivolare ancora e il dolore sarebbe peggiorato, ma nonostante questo ero tranquilla. Ricevevo amore, ringraziavo, ed era come se qualcosa entrasse in circolo. Erano i rapporti umani, che possono spazzare via anche i problemi più̀ gravi. Se fosse sempre così, sarebbe davvero stupendo.
***
La casa in cui abbiamo vissuto solo per un po’, quella che abbiamo dovuto vendere senza la clausola di trasferimento, era davvero una bella casa.
In quella casa ho avuto un’esperienza di trasloco veramente difficile, ho chiacchierato con la mia famiglia, ho perso il sonno a furia di pensare, sono stata male, l’ho lasciata mille volte per andare a Funabashi perché dovevo scrivere un romanzo ambientato lì.
Era così̀ piccola che nessuno avrebbe pensato seriamente che potesse ospitare una famiglia, però ha sempre accolto questi suoi abitanti transitori. Nessun problema, un’atmosfera sempre delicata, dolce, leggera. Mi ricordo che la scorsa estate, al tramonto di una giornata serena e calda, arrivai completamente esausta da Funabashi alla stazione di Setagaya-Daita e ritornai a casa a piedi.
Salutai la vecchina del negozio Yamazaki, che mi è molto simpatica, e mi feci la mia scarpinata con i sandali ai piedi. Tra le mani avevo del pane acquistato alla stazione di Funabashi. Avevo finito di raccogliere il materiale per il libro. La cosa mi rattristava, perché mi ero divertita. Certo, anche completare il romanzo sarebbe stato divertente, ma non sarei più̀ scesa alla stazione di Funabashi come uno qualsiasi dei suoi abitanti... Con questo pensiero, alzai gli occhi e vidi la casa.
Sotto il cielo d’estate, sembrava darmi il bentornato con un sorriso. Le foglie ampie del loto, la targhetta con il nostro cognome. La facciata era illuminata e le pareti risplendevano di un bianco luccicante. Era uno spazio che mi amava sempre, al cento per cento. Lasciarlo mi faceva così tanta paura che quasi mi veniva da piangere, ma le novità fanno sempre paura. Mi sarei abituata alla nuova casa e avrei scritto tanti libri anche lì. Sarebbe stata una scelta votata all’efficienza, e il fatto stesso che sia caduta dalle scale dimostra che la nuova casa è sotto molti aspetti esigente, non gentile come l’altra. È come se avesse qualcosa di severo, un’aria di sfida. Forse ci sta ancora studiando perché non ci comportiamo propriamente da adulti, quindi esita a mostrarsi gentile e accogliente. Ci vorrà del tempo prima di affezionarcisi, ma credo che sia una casa priva di ombre. La sera del trasloco accendemmo per la prima volta la tv e ordinammo della pizza, e guardando parenti e amici che mangiavano sentii che quella era proprio casa mia. Ciononostante, il breve ma meraviglioso periodo trascorso nella casa di prima resterà sempre con me.
Quando andavo sul balcone usciva anche l’anziana signora dell’appartamento accanto e iniziavamo a parlare del più̀ e del meno, a spettegolare delle cose che succedevano da quelle parti, ce ne stavamo lì̀ a chiacchierare in pigiama. Lei era sempre stanchissima perché se ne andava in giro a raccogliere soldi per il comitato di quartiere, ma se mi offrivo di aiutarla sorrideva con le sue labbra rosso fuoco e mi rispondeva che senza quell’impegno si sarebbe rincitrullita. E poi c’era una famigliola che portava sempre il gatto e il cane a passeggiare. Non stavo andando lontano, ma non avrei più vissuto allo stesso ritmo di quelle persone, e mi dispiaceva.
***
Ora voglio guardare in alto, guardare avanti, voglio vivere l’oggi, il presente.
Come con mio figlio: ho certamente nostalgia di quando era bambino, mi si stringe il cuore quando vedo i libri illustrati che gli leggevo tutti i giorni, quando vedo i suoi giocattoli, ma sono più̀ felice di poterlo vedere com’è adesso!
In fondo la vita, tutto ciò̀ che possiedo, è il tempo dell’«adesso». Addio, piccola e dolce sweet home. Voglio dirti soltanto grazie.
[Traduzione di Gala Maria Follaco]