Il Sole 24 Ore, 24 novembre 2018
Wall Street si sente in trappola
Il timore sempre più diffuso sui mercati è che il caso di General Electric, tracollata a Wall Street del 56% da inizio anno per un mix di incertezza industriale e problemi finanziari, sia solo la punta di un iceberg. Perché il colosso americano si trova oggi a pagare, in grande, la somma di tanti comportamenti che negli anni del denaro facile sono stati molto diffusi a Wall Street. Per esempio la corsa ad emettere bond, soprattutto tra aziende a bassa affidabilità: moda diffusa, che ha gonfiato il mercato americano dei bond aziendali fino a quasi 7mila miliardi di dollari. Oppure la corsa a indebitarsi per acquistare azioni proprie in Borsa: fenomeno altrettanto di massa se si pensa che i buyback dal 2009 sono ammontati – stando alla banca dati S&P Market Intelligence – a 4.644 miliardi di dollari nella sola Wall Street. Più di quando immesso sui mercati dalla Fed con i suoi piani di stimolo monetario.
La crisi di GE preoccupa perché, date le dimensioni del suo debito, se venisse declassata nel campo delle obbligazioni «high yield» (cioè spazzatura) e di colpo portasse tutti i suoi 115 miliardi di dollari di bond in un mercato che oggi ne vale 1.600, potrebbe creare seri contraccolpi. Dall’altro perché nelle stesse condizioni di Ge, cioè con debiti che potrebbero cadere negli “inferi” dei rating, ci sono tante altre aziende americane: circa la metà dei 5mila miliardi di obbligazioni ad alto rating hanno in realtà valutazioni nel campo della «BBB». Dunque sono le prime che, se venissero declassate, cadrebbero nel capo della «spazzatura». Col rischio di destabilizzare un mercato già fortemente illiquido.
Tanto debito e poca cassa
L’azzeramento del costo del denaro prima e le massicce iniezioni di liquidità da parte delle banche centrali hanno reso il ricorso al debito estremamente conveniente per le aziende in tutto il mondo. In 10 anni – calcola S&P – l’incidenza media del debito societario sul Pil globale è passata dall’81 al 96 per cento. Una fetta importante di questo debito è stata creata negli Usa dove c’è stato un boom delle emissioni obbligazionarie. In 10 anni il mercato dei titoli ad alto rating (Investment grade) è più che raddoppiato passando da 2mila a 5mila miliardi di dollari di controvalore mentre sul segmento high yield si è passati da 800 a 1.600 miliardi. Le emissioni sono cresciute perché gli investitori, a caccia di rendimenti che ormai non era facile trovate, compravano praticamente qualunque cosa. È così che il mercato è cresciuto in maniera esponenziale. Una crescita che è andata di pari passo con un lento deterioramento dei bilanci societari. Il rapporto medio tra debito ed Ebitda delle aziende americane, che nel 2011 viaggiava in media intorno a 2,6 volte, oggi si attesta a quota 3,4 volte segnala BofA Merrill Lynch. Oltre i record della recessione. La corporate America ha imponenti disponibilità di cassa (si stimano oltre 2000 miliardi) ma questo tesoretto – segnala S&P – è concentrato nelle mani delle 25 società più grosse (a partire dai big tecnologici come Apple) escluse le quali si stima una disponibilità di cassa pari al 17% del loro indebitamento. Il peggior dato dalla crisi finanziaria. Se poi si considerano solo le aziende a basso rating la quota è ancora più bassa perché siamo al 12% contro il 14% del 2008.
La moda dei buyback
Se c’è stata questa riduzione della cassa in rapporto al debito è anche (ma non solo) per via della pratica molto diffusa del riacquisto di azioni proprie. Nel 2015 e 2016 le aziende Usa hanno speso più dei loro utili operativi annui solo per comprare azioni proprie in Borsa o per pagare dividendi agli azionisti. Spesso le imprese si sono indebitate (anche emettendo bond) per realizzare buyback o fare dividendi. Anche quando la loro situazione contabile consiglierebbe maggiore prudenza. Le casistiche si sprecano: la catena di ristoranti Yum Brands negli ultimi 12 mesi ha speso 2,3 miliardi in buyback e 387 milioni in dividendi a fronte di un utile di 1,6 miliardi. Avrebbe potuto abbattere il suo debito da 9,7 miliardi di dollari (5 volte l’Ebitda) ma ha preferito remunerare gli azionisti e spingere in Borsa le quotazioni del titolo. Ceasars Entertainment, la società che controlla il famoso casino di Las Vegas Ceasar Palace, nonostante un debito pari a quasi 9 volte l’Ebitda, un flusso di cassa negativo da 3,9 miliardi di dollari, ha deciso di destinare 381 milioni per riacquistare azioni proprie.
La moda del buyback riguarda tutti, dalle grandi multinazionali tecnologiche ricche di cassa alle medie aziende più fragili. Perché è un sistema molto efficace per pompare i prezzi delle azioni. Sia perché riducendo i titoli in circolazione se ne aumenta il valore. Sia perché in questo modo cresce l’indicatore chiave dell’utile per azione (e anche il bonus del top manager). Secondo i calcoli di Artemis Cm la crescita degli utili per azione delle aziende Usa dal 2012 al 2017 è per il 72% frutto proprio della politica di riacquisto di azioni proprie. Il che dovrebbe far riflettere sulla sostenibilità delle quotazioni di Wall Street. Il mercato è nervoso, gli indici hanno azzerato i guadagni da inizio anno, e ci si chiede quando arriverà la fine del ciclo. «I fondamentali delle aziende americane restano buoni – spiega Jeffrey Cleveland, capo economista di Payden &Rygel – l’economia ha mostrato di reggere bene il rialzo dei tassi di interesse. Nonostante il debito societario elevato il tasso di fallimenti è basso. Ma bisogna sempre tenere a mente che le recessioni sono come i postumi di una sbornia. Più è stata forte l’ubriacatura della sera prima peggio si rischia di svegliarsi il giorno dopo». L’abbondante ricorso al debito e la diffusa pratica dei buyback hanno contribuito non poco ad alimentare questa sbornia e il rischio per l’economia americana è quello di risvegliarsi con un forte mal di testa.