Il Sole 24 Ore, 24 novembre 2018
Auto elettrica, l’Italia è ferma
C’è un concorrente che rischia di arrivare in ritardo nella corsa appena avviata alla riconversione delle auto dai motori diesel-benzina a quelli elettrici: i produttori italiani di componentistica per l’auto. Nel 2017 solo il 18,8% delle imprese italiane della fornitura automotive ha investito nei motori a propulsione alternativa (idrogeno, ibrido o elettrico). Una percentuale sostanzialmente uguale a quella del 2016 (18,4%). Il 68,5% delle imprese del settore non ha alcun progetto di sviluppo nelle nuove motorizzazioni. Nonostante sia ormai chiaro che la direzione imboccata dalla regolamentazione europea e dalle case automobilistiche sia quella del passaggio all’elettrico nelle sue varie forme, ibrido e puro. Con tempi già definiti.
Il segnale definitivo della direzione scelta è stato il mega-investimento annunciato a metà novembre da Volkswagen: 44 miliardi in cinque anni per sviluppare i veicoli ad alimentazione non convenzionale. La conferma che il percorso, già visibile nella tendenza delle vendite in Europa, è una strada segnata. Nell’immediato i motori a benzina andranno a sostituire quelli diesel. Nel medio periodo, i propulsori ibrido ed elettrico (nelle sue varie declinazioni) andranno a conquistare sempre più quote di mercato. Il calendario è dettato dalle nuove regole europee sulle emissioni di CO2 che entro la fine dell’anno usciranno dal trilogo Commissione, Parlamento e Consiglio dei ministri europeo. Diminuzioni di emissioni drastiche già a partire dal 2021 (23,5 g/km sui 95 attualmente consentiti) con un ulteriore calo del 15% nel 2025 e del 30% nel 2030. Nella bozza proposta dalla Commissione il punto di arrivo è appunto il 2030 quando nel parco delle vetture circolanti nella Ue il 35% dovrà essere elettrico. Nel 2025, il primo step del programma, l’elettrico dovrà essere il 20% del totale delle macchine vendute.
Un regolamento che traccia un percorso di riconversione tecnologica tutt’altro che neutrale. Le case automobilistiche sono spinte verso la propulsione non convenzionale (ibrida o elettrica) e anche il mercato ne asseconda la direzione anche perché il diesel, dopo gli scandali, ha subito un crollo d’immagine dal quale è impossibile risalire. Nonostante, come è noto, sia il motore con meno emissioni di CO2. I numeri sono eloquenti: nei primi nove mesi dell’anno, nella Ue la vendita di auto a propulsione alternativa è cresciuta del 33,7% (in Italia del 26,5%), il diesel è diminuito del 16,9% e il motore a benzina è cresciuto del 16,6%. In termini assoluti, in Europa sono state vendute oltre 837mila auto ad alimentazione alternativa e in Italia oltre 172mila.
«Inutile negare che come produttori siamo indietro», dice con franchezza Giuseppe Barile, presidente del gruppo componentisti di Anfia e amministratore delegato di Webasto, una multinazionale del settore. «I nostri competitor esteri sono partiti prima e hanno investito di più, ma le regole Ue e il mercato ci impongono un’accelerazione. Sono convinto che l’elettrico per il settore sia un’opportunità di sviluppo, anche se la transizione è forzata da una legislazione europea tecnologicamente non neutrale, che non rispetta i cicli di investimento dell’automotive».
Barile riconosce che la prudenza, forse eccessiva, di Fca nello sviluppo dei propulsori elettrici è stato un freno per una filiera che ha il 40% delle imprese con il 50% del fatturato dipendente dalla multinazionale di Torino ed è fortemente orientata al diesel (il 7% del totale, 140 imprese 170mila addetti esclusivi), ma non cerca alibi: «La filiera – dice – ha le sue responsabilità, ma se la transizione, molto forzata, non verrà accompagnata da misure di sostegno le imprese che non saranno in grado di investire in maniera robusta rischiano andare in gravi difficoltà».
Ci sono differenze sostanziali anche all’interno della catena di fornitura. Secondo l’Osservatorio sulla componentistica auto 2018 dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, il 73% delle imprese del settore giudica molto negativamente l’impatto dei motori alternativi sulla competitività italiana nei prossimi cinque anni. Mentre solo il 28% degli imprenditori giudica in maniera positiva l’impatto dei motori elettrici. Andrea Stocchetti, il professore di analisi della concorrenza che ha scritto il capitolo del rapporto dedicato alle nuove tecnologie fa una distinzione sostanziale. «Le imprese non sono tutte nelle stesse condizioni. C’è chi in questi anni ha investito ed è stato al passo e chi deve fare investimenti robusti e formare il personale. Le nuove tecnologie sono modulari e si fa in fretta a recuperare il terreno perso. Ma la filiera deve trovare il modo di mettere le competenze in sinergia deve e farlo rapidamente anche perché le tecnologie non riguardano solo il motore in senso stretto, ma tutte le componenti meccaniche dell’auto».
Peso, robustezza, rumorosità sono gli aspetti che necessitano di interventi nella conversione. Marco Sargenti, amministratore delegato di Vimi Fasteners, una media impresa emiliana specializzata nei sistemi di fissaggio che ha raccolto la sfida dei nuovi propulsori. «Dobbiamo partire dall’idea che nelle nuove auto, ibride o elettriche, tutto dovrà essere più leggero, più resistente e meno rumoroso. Il peso delle batterie va compensato con l’alleggerimento di tutto il resto. Ecco perché bisogna investire molto nei nuovi materiali, nelle leghe leggere, alluminio e titanio al posto dell’acciaio». Vimi Fasteners ha iniziato il processo negli anni scorsi aumentando al 7% del fatturato l’investimento in ricerca e sviluppo, il triplo della media del settore meccanico. «È questa la strada da percorrere, ma non possiamo farlo da soli. Industria 4.0 e Nuova Sabatini ci hanno aiutato molto. Servirebbero politiche mirate perché la nostra è un’industria molto reattiva e flessibile e ha il potenziale per cambiare rapidamente».