Corriere della Sera, 24 novembre 2018
Ancora sul caso Torlonia, intervista al figlio Giulio
«Mio padre, Alessandro Torlonia, ha gestito tutto il patrimonio fino alla fine. Le sue firme sono tutte autentiche. E nessuno si è frapposto tra lui e mio fratello Carlo, che non è venuto neanche al suo funerale». Giulio è l’ultimo dei figli del principe Torlonia. E nella contesa aperta sulla collezione privata di famiglia è schierato con le sorelle, Paola e Francesca, e il nipote, Alessandro Poma.
Suo fratello sostiene che stavate per vendere la collezione a sua insaputa. È così?
«Mio padre aveva accentrato tutto, da capo della casa. Non ne ho mai saputo nulla».
Mai sentito parlare di vendita?
«Solo quando Silvio Berlusconi voleva acquistarla. So che c’erano stati contatti con la Fondazione Getty per una mostra: prima in Campidoglio e poi in Europa e Usa. Il suo desiderio era quello».
Quale?
«Rendere fruibile il patrimonio. Si era parlato di un museo. Ma le trattative col Campidoglio si interrompevano sempre per opposte visioni: mio padre non voleva perderne la proprietà. Per questo propose Villa Albani».
Perché è stata fatta la Fondazione, per vendere le statue all’estero come sospetta suo fratello?
«Lo decise mio padre. Gli chiesi il perché. Mi rispose che voleva fare a modo suo. Ma i beni sono vincolati: anche per fare una mostra c’è bisogno dell’autorizzazione del ministero dei Beni Culturali».
Quindi esclude che il patrimonio finirà all’estero?
«Lo escludo».
Suo fratello rivendica il ruolo di primogenito.
Le autorizzazioni
«I beni sono vincolati, anche per fare
una mostra serve
il sì del ministero»
«E nessuno glielo nega. Lui è il principe. Mi ha diffidato anche dall’usare quel titolo. Secondo il codice araldico al primogenito spettava tutto. Ma non siamo più nell’800».
Anche suo padre si comportava così.
«Ma tutto era suo».
I rapporti con suo fratello?
«A differenza di quanto sostiene Carlo, sono sempre stati difficili. Andò via di casa molti anni fa. Io vivo nel palazzo di mio padre e in questi anni non l’ho mai visto. Neanche quando lui stava per morire».
E con sua madre?
«Non vedeva neanche lei. Ma venne al funerale».
Lei è vicepresidente della Banca del Fucino. Suo fratello sembra far risalire tutto ai problemi della banca di famiglia. Le statue servivano a ripianare i conti?
«Salvare la banca serve a tutelare i 300 lavoratori che sono stati fedeli alla famiglia. Ma non c’entra nulla».
Qual è il suo auspicio?
«Che torni un barlume di buon senso a mio fratello. Questa storia è un danno di immagine colossale».