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 2018  novembre 24 Sabato calendario

Le condizioni di Bruxelles per trattare

Quanto i rapporti dell’Italia con l’Unione europea siano inquinati dagli equivoci si avverte persino oggi che Giuseppe Conte cena con Jean-Claude Juncker. Mentre il premier visita il presidente della Commissione, a Roma la maggioranza cerca di proteggere dall’influenza dei regolatori europei le piccole banche italiane. Una mossa emblematica di questa fase, perché destinata a dimostrarsi del tutto irrilevante. 
L’idea in Italia è creare uno «scudo anti-spread», che prevenga per gli istituti non quotati i danni dovuti al crollo di valore dei titoli di Stato. Con una norma, le piccole aziende di credito sarebbero sollevate dall’obbligo di svalutare quei titoli in bilancio e far apparire così nuove perdite. Ma è una mossa velleitaria: la vigilanza bancaria europea potrà comunque fare i conti da sé ed esigere che gli istituti trovino subito nuovo capitale.
Di questi errori di lettura il confronto fra Roma e il resto d’Europa è popolato. Pochi nel governo sembrano del resto aver capito fino a che punto le priorità dalle due parti sono in antitesi. Lega e M5S puntano a distribuire ogni euro generato dal deficit pubblico al maggior numero possibile di elettori. L’area euro invece vuole ridurre al minimo le probabilità che i Paesi del club debbano trasferire risorse a un governo che non riesca più a finanziare il proprio debito. Sono logiche che non possono incontrarsi a metà strada: una parte dovrà cedere e toccherà senz’altro alla più vulnerabile. 
Con queste premesse, Juncker ha messo a fuoco una strategia per l’Italia fatta di durezza condita di un po’ di elasticità. Quest’ultima dovrebbe emergere nei prossimi mesi, sia sui tempi che sulla sostanza della procedura sui conti appena innescata. In particolare, mercoledì scorso la Commissione Ue ha definito infatti la violazione delle regole da parte del governo «particolarmente grave»: si tratta di un termine legale, che dà diritto al sistema euro di imporre sanzioni contro l’Italia già entro tre mesi – non sei – cioè prima delle elezioni europee di maggio. È probabile però che la Commissione Ue aspetti, anche per non alimentare un’ondata anti-europea nel Paese. 
In realtà il giudizio di Bruxelles – che sarebbe stato comunque negativo – è aggravato da stime discutibili o già superate. Organi indipendenti come il Fondo monetario internazionale, l’Ocse di Parigi e l’Ufficio parlamentare di bilancio di Roma non confermano le previsioni della Commissione: prevedono tutti un deficit italiano leggermente più basso, sia sul 2019 che sul 2020. Soprattutto, a Bruxelles si calcola un deficit «strutturale» dell’Italia – al netto delle oscillazioni economiche – sulla base di previsioni di crescita chiaramente troppo positive. In questa fase invece l’economia è molto più fragile di quanto implichino i numeri contenuti nell’opinione legale varata a Bruxelles mercoledì. Dunque, forse, il giudizio sul bilancio – comunque in evidente violazione – avrebbe giustificato un po’ più di comprensione. 
Juncker lo sa e per questo sarà tutt’altro che intransigente sul merito. Quando in inverno formulerà «raccomandazioni» per correggere i conti italiani, chiederà giusto di lasciare il deficit del 2019 più o meno dov’è quest’anno: nessuna stretta, ma cancellazione delle spese previste in più per somme simili a quelle già indicate per pensioni e reddito di cittadinanza. Da un lato niente nuovi tagli e tasse, dall’altro addio al grosso delle promesse di Lega e M5S.
I sacrifici economici per l’Italia sotto procedura sarebbero piccoli, quelli politici per il governo no. A maggior ragione se continua a rifiutare un confronto serio su questo bilancio tanto pieno di incongruenze. È qui che verrà alla luce il volto più duro della Commissione Ue, perché qualunque concessione parziale si dimostrerà impossibile: a Bruxelles non basta più un’Italia che mantenga invariato l’obiettivo di deficit ma sposti più risorse sugli investimenti, o che limi di poco il disavanzo. Troppe ironie, falsità e insulti sono rimbalzati da Roma da giugno in poi. A questo punto Juncker vuole una resa incondizionata, perché ritiene di avere il coltello dalla parte del manico. Sa che il mercato eserciterà sempre più pressione sull’Italia, fino a destabilizzarne le banche, quindi conta che il sistema-Paese obblighi il governo a cedere. Calcoli razionali, senza dubbio: sempre che, prima che i populisti alzino bandiera bianca, la realtà non sfugga a tutti di mano.