il Fatto Quotidiano, 24 novembre 2018
Tutti gli affari della famiglia Angelucci
Ogni volta che partono le rotative dei suoi giornali che siano Libero, Il Tempo o le testate dei locali Corrieri di Lazio e Abruzzo, Giampaolo Angelucci, l’erede dell’impero della sanità privata fondata dal padre, il deputato di Forza Italia da tre legislature Antonio Angelucci, segna rosso sulla sua agenda personale. Ogni euro che ricava dalla vendita delle sue testate produce immancabilmente solo perdite per la Tosinvest, la finanziaria di famiglia. Libero, la testata più importante posseduta al 60% dalla Fondazione San Raffaele che fa capo alla famiglia e al 40% dalla stessa Tosinvest, ha cumulato perdite per oltre 6 milioni solo negli ultimi 3 anni. Senza l’aiuto dei contributi pubblici che drogano i ricavi per oltre 3 milioni l’anno, il buco salirebbe a 15 milioni nel triennio. Il Tempo comprato nel 2016 per 12,5 milioni ha perso l’anno scorso più di un milione di euro su soli 4,7 milioni di ricavi. La catena dei Corrieri del Centro Italia ha chiuso in rosso per 1,7 milioni su 6,5 milioni di incassi.
Un bagno di sangue costante con le testate svalutate ogni anno che passa: Libero è stato svalutato per 4,6 milioni sui 12,4 dell’anno prima. Il Tempo appena comprato è già stato svalutato per 1,7 milioni. E il gruppo del Corriere srl vale a bilancio 850 mila euro dopo un taglio secco di valore per 6,8 milioni. Senza contare i debiti: Il Tempo ne ha per 11 milioni su un patrimonio netto di soli 700 mila euro; Il Corriere srl per 12 milioni, il doppio dei ricavi; Libero per 22 milioni su un capitale di poche migliaia di euro. Che l’editoria sia una passione malsana per gli Angelucci lo dicono le nude cifre. Ma tanta pervicacia – come l’acquisto solo due anni fa del disastrato Il Tempo e il tentativo di comprarsi anche Panorama, sfilato agli Angelucci proprio da un loro ex direttore, quel Maurizio Belpietro che licenziato in tronco da Libero ha fatto causa vincendola di recente con un dazio per gli Angelucci di oltre 3 milioni da pagare – dice che i giornali pesano. Pesano per fare altri affari. Già perché i soldi, quelli veri, da sempre la famiglia romana li fa (o meglio li faceva) con le cliniche private attraverso la San Raffaele Spa. Ventidue strutture, soprattutto residenze per gli anziani tra Roma e il centro Italia, con 2.600 posti letto. Ovviamente convenzionati con il Sistema sanitario nazionale. È la fortuna costruita dal capostipite Antonio, il deputato tra i più ricchi e più assenteisti della Camera. Un piccolo impero che ora soffre. La San Raffaele ha perso, nel 2016, 23 milioni su 118 di ricavi. Il cuore è nel Centro Italia, ma la testa è in Lussemburgo. Le cliniche sono possedute infatti al 98% dalla holding lussemburghese Three Sa e per poco più dell’1% dalla Tosinvest. Gli Angelucci fanno affari in Italia, ma i soldi finiscono nel Granducato. Non solo la San Raffaele è controllata da lì, ma anche il gruppo Tosinvest ha la cabina di regia nel Paese dalla fiscalità agevolata. La Three sa controlla il 93,6% della Tosinvest; l’altro 6,3% è di un’altra scatola lussemburghese la Spa di Lantigos. Non finisce qui perché a sua volta la Lantigos controlla la stessa Three.
Un ginepraio. Le due scatole lussemburghesi sono dovute intervenire di recente per assicurare finanza al gruppo Tosinvest in crisi. Lantigos ha convertito un credito di 45 milioni in versamento in capitale nella Tosinvest, che ha chiuso gli ultimi tre anni con perdite per oltre 8 milioni. C’era bisogno di rafforzare il capitale delle attività italiane che hanno 100 milioni di debiti finanziari netti da pagare. Non solo. Sono state fuse nella Tosinvest le attività immobiliari (l’altra vera ricchezza della famiglia) della Tosinvest real estate che hanno apportato cespiti per oltre 160 milioni. Oltre alla sanità privata, all’immobiliare, ai giornali zoppicanti, gli Angelucci lavorano nel facility management (gestione servizi e manutenzioni immobiliari). E con la loro Natuna hanno vinto di recente la gara per l’appalto al Senato, gara svoltasi fuori dai bandi Consip. L’editoria è il braccio debole della galassia, ma è sull’editoria che gli Angelucci corrono sempre sul filo del rasoio della legalità. C’è un contenzioso aperto con l’amministrazione finanziaria sull’ex testata Il Riformista. Secondo il fisco nelle operazioni di valorizzazione e successive svalutazioni, fino alla cessione, gli Angelucci avrebbero realizzato un indebito vantaggio fiscale deducendo impropriamente una minusvalenza di 13 milioni risparmiando sulle tasse.
Ma il clou delle appropriazioni indebite, o meglio delle truffe, è la vicenda Libero. La proprietà è degli Angelucci che in virtù dell’affitto della testata all’Editoriale Libero srl (controllata al 60% dalla Fondazione San Raffaele degli Angelucci e dal 2014 per il 40% dalla stessa Tosinvest) prendevano da sempre i contributi pubblici per l’editoria. L’Agcom e poi il Consiglio di Stato hanno deliberato che la testata avrebbe usufruito in modo illecito di 35 milioni di contributi pubblici dal 2006 al 2010. Soldi che vanno restituiti alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Ebbene lo schermo è caduto. A fare da manleva alla restituzione del maltolto ecco comparire la holding lussemburghese Spa di Lantigos, il forziere degli Angelucci all’estero. È Lantigos che si è impegnata a pagare a rate per 10 anni il rimborso. Ma mentre gli Angelucci stanno restituendo i contributi illeciti, anche quest’anno l’editoriale Libero ha ottenuto i suoi 3 milioni di aiuto pubblico. Una farsa: se la famiglia deve restituire decine di milioni allo Stato perché non bloccare i nuovi contributi nel frattempo? Una storia che sa di beffa. Come di beffa ha il sapore del rientro in campo di Denis Verdini. L’ex plenipotenziario di Berlusconi in Parlamento, di recente condannato a 6 anni per il crac del Credito cooperativo fiorentino, è stato ingaggiato dagli Angelucci per supervisionare i suoi giornali come presidente delle società che editano Il Tempo e i Corrieri locali. Sua la firma sugli ultimi bilanci. Chissà se, viste le perdite, il capitale ridotto all’osso e i debiti imponenti, non si senta anche qui odore di crac.