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«Cosa mi sono regalato per i miei 80 anni? Un futuro». Pupi Avati, ospite speciale del Torino Film Festival, ha curato una selezione di film Unforgettables, che uniscono le sue passioni, cinema e musica, da Birddi Clint Eastwood al suo Bix. Ma ha anche girato il suo ritorno all’horror, Il signor diavolo, prepara una serie e un grandioso progetto che celebra Dante attraverso Boccaccio: «C’è chi si compra una macchina o una casa, io mi sono dato tante storie da raccontare. Sono andato a parlare dei progetti con tutti; la sfrontatezza che non avevo a vent’anni l’ho trovata adesso. E ora non posso andarmene lasciando le cose a metà: dovrò vivere un sacco di altri anni».
Avati, l’edizione 36 è la sua prima volta al Festival di Torino.
«Ne sono lusingato. Torino mi ha sempre inibito, è uno di quei festival per cinefili con cui ho avuto un difficile rapporto. Anzi, un non rapporto. Però questa è una prima volta bella, mi piace l’idea di una selezione di cinema e musica. Ho scelto film jazz, la musica che ascolto di più, l’unico genere che frequento insieme alla classica. La musica è la mia vita, in ogni ambiente della mia casa c’è un impianto per ascoltarla».
Per anni ha rimpianto di non aver fatto il musicista.
«Lo rimpiango ancora. Davanti a me, in questo momento, c’è dritto in piedi un clarinetto che m’accompagna quando vado a fare i film, lo tengo vicino al letto. È l’oggetto con cui ho condiviso i momenti di maggiore festosità e dolore della vita. Il jazz è musica fortemente competitiva, andare a una jam session è come andare a fare a cazzotti: devi credere che suonerai meglio di chiunque altro. Da un certo punto della mia vicenda musicale mi sono reso conto che ero il meno creativo, talentuoso. Ho rinunciato a suonare pubblicamente. È stato un dolore. La musica, il jazz che è improvvisazione, possono raccontare chi sei. Ho invidiato chi poteva farlo e solo molto tempo dopo ho trovato un succedaneo, il cinema. Ma per quanto i miei film mi somiglino, c’è sempre il dover fare i conti con committenza e mercato. Sei bravo a fare un film anche perché hai trovato i soldi per farlo».
Li ha trovati per “Il signor diavolo”, che segna il suo ritorno all’horror.
«Sì, dopo essere stato bocciato da sei distribuzioni. Sono tornato nei luoghi dei miei primi film, nella valle di Comacchio, le paludi, atmosfere dove sono di casa. In un momento in cui si girano solo commedie, ho fatto un film gotico. Con una troupe ricomposta con l’attenzione amorevole di una volta e gli interpreti di film di allora: Cavina, Capolicchio…».
Com’è stato il set?
«Sono un regista eclettico, ho fatto tutti i generi tranne il western. Vi assicuro che quello in cui si ride di più è l’horror: le scene macabre, destinate a terrorizzare la platea sono quelle per cui si ride come matti. Dopo anni che non lo facevo, provavo una sorta di gioiosità la mattina nell’andare sul set a tagliare un dito a tizio, togliere l’occhio a un altro… era una festa».
Quando girò “La casa dalle finestre che ridono” immaginava che sarebbe diventato un classico?
«No. Avevo la percezione di essere riuscito a fare un film con pochissimi soldi. 152 milioni di lire: il budget più basso dell’anno. Mai avrei creduto che 40 anni dopo i ragazzi mi avrebbero ancora fatto autografare il dvd. Sono felice essere tornato a fare il cinema, dopo anni di tv, condizionato dalle regole mortificatorie dei numeri, dall’obbligo del dover vincere la serata. Si ha la sensazione di fare qualcosa che dura solo la sera in cui vai in onda. La pay per view ha lo sguardo più lungo, pensa in prospettiva, certe serie sulle piattaforme le vedi con piacere anche anni dopo. Uno dei momenti più brutti della mia vita è stato quando, per vicissitudini produttive, ho dovuto sospendere il progetto conSky, Floating coffins, “bare galleggianti”, serie meravigliosa che si fonda sul gotico rurale. È stato atroce per me, mio fratello, la nostra famiglia e quelle dei collaboratori».
Problemi economici?
«Non tutti i film che si girano possono essere amati. Poi si è interrotto il rapporto di continuità con Rai fiction. Dal ’78 abbiamo realizzato prodotti che non hanno deluso. Poi però sono arrivati nuovi dirigenti che non ci considerano, non ci ricevono più. Magari non siamo empatici, magari cinque, sei società hanno in mano tutto. Queste cose che vivo oggi, con le debite proporzioni e senza presunzione, le ho vissute accanto a Fellini. “Il dottore è in riunione, la richiameremo”, e poi non richiamavano. Questi sono stati gli ultimi anni di Federico. Li ho vissuti tutti perché abitavamo vicino, la sera andavamo a prendere a messa la sua Giulietta e mia madre».
Le cose stanno ripartendo...
«Quell’emarginazione mi ha dato la forza di trovare un entusiasmo nuovo. Ho un progetto enorme su Dante raccontato dal suo primo biografo, Boccaccio. Nel 1350, 29 anni dopo la sua morte, andò a Ravenna incaricato di consegnare 10 fiorini di risarcimento alla figlia suora. Nel 2021 ricorreranno i 700 anni dalla morte di Dante, nessuno ha pensato di raccontarlo, eppure è l’italiano più famoso nel mondo. E poi penso a un film tratto dal libro del papà di Vittorio Sgarbi, Giuseppe: Lei mi parla ancora, lo girerò con Johnny Dorelli. È la storia di un uomo che perde la moglie dopo tanti anni di matrimonio e rifiuta la solitudine riempiendola di ricordi, continuando a parlare con lei. Lo comprendo bene: sono sposato da 54 anni. Ho raccontato il momento più doloroso, ora voglio parlare del migliore: quando chiesi a mia moglie di sposarmi e lei accettò, dopo quattro anni di corteggiamento. Ho avuto tante gioie; ma nel momento in cui ho pensato che l’avrei avuta per sempre ho provato l’ebbrezza più grande».