la Repubblica, 24 novembre 2018
Il grande romanzo di Marías sulla noia
Il tema essenziale di Berta Isla (Einaudi, traduzione di Maria Nicola, pagg. 478, euro 22) è la noia. Un grande narratore come Javier Marías costruisce racconti che vogliono essere pieni di tedio; e non si sa mai se ci parla in nome della vita noiosissima o della morte ancora più noiosa. Egli non è altro che tempo coagulato: non c’è evento in Berta Isla che non passi attraverso il fittissimo tedio del tempo: giorni, giorni, ore, minuti, secondi, secondi, sottosecondi, minisecondi; come era già accaduto in un altro bel libro, Domani nella battaglia pensa a me (Einaudi). Come è spesso, il tempo: come è intollerabilmente folto. Tutto è tempo: è tempo il passato, tempo il presente, tempo il futuro (che è anche passato e presente).
Tutto ciò è irreale, perché passato-presente-futuro sono, in primo luogo, possibile (anzi possibile del possibile del possibile, e quindi inconoscibile). Non sappiamo mai cosa sia accaduto o accada o accadrà o potrebbe (chissà come) accadere.
Nel libro c’è una sola cosa che offende il tempo: un delitto, un enorme delitto, anzi una serie di furibonde metafore-delitti: in attesa, come uno si può aspettare all’angolo della strada un grosso serpente o una viscida anguilla; o come possiamo perderci in una nebbia immensa. Tutto si nasconde e a forza di nascondersi diventa pura, assoluta ironia che Marías corteggia con una specie di ossessione malata.
Berta Isla è un libro più denso, forte e vigoroso di Domani nella battaglia pensa a me, di una ironia che sale al di sopra della stessa nozione di ironia. Il gioco è molto più pesante, e insicuro, e inquieto, e incerto. Da un lato, non esistono personaggi: la parola personaggio è più offensiva per Javier Marías che per Federico Fellini. Ma, dall’altro, Berta Isla è gremita, grondante di personaggi. Eccolo lì, Tomás, forse moribondo, forse vivo, forse morto, che ha sposato Berta Isla nel maggio del 1974; ed ecco Berta Isla, che possiede un rilievo fisico e morale molto più intenso del marito quasi inesistente, o forse mai esistito, che ha incontrato, frequentato, amato e sposato. Ma Tomás Nevison vive oppure esiste? Esiste oppure vive? Sono parole che per Marías non coincidono affatto, anzi contrastano moltissimo tra loro. La vita non è esistenza: l’esistenza non è vita.
Il profumo in cui il libro è immerso è sia inglese, sia spagnolo, sia inglese-spagnolo, sia inglese-spagnolo-irlandese. Si soffoca per l’intensità dei profumi e, stranamente, l’ironia accentua questa soffocazione. Sembra che, per un libro, che è tutto una fuga, non ci sia assolutamente né via né possibilità di fuga. La trasparenza o le trasparenze non lasciano aperture; e poi non sappiamo se i personaggi siano metafore o personaggi-metafora, o metafore-personaggi; oppure se siano limitati, o si perdano o in cielo o negli abissi come nel Dono di Nabokov. Dappertutto c’è un fortissimo senso di Spagna e di Inghilterra: al punto che viene raccontata tutta la spedizione inglese alle isole Falkland: bombardamenti, affondamenti, combattimenti, disastri mortali.
Forse tutto è gioco o negazione di qualsiasi gioco: sia vita, sia morte; tanto più vita quanto più profondamente morte, quanto più profondamente morte tanto più profondamente vita.
Procediamo verso tutte le direzioni, verso il prossimo libro di Javier Marías. Egli possiede un grandissimo talento, come, credo, nessun altro scrittore europeo della nostra epoca.