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 2018  novembre 24 Sabato calendario

Michele Serra risponde a Elena Catteneo

Sono contento che la senatrice Elena Cattaneo abbia voluto rispondere (Repubblica di venerdì) a una mia Amaca, nella quale definivo dogmatiche alcune sue affermazioni ostili all’agricoltura biologica. Contento perché sarebbe bello riuscire ad aprire uno spiraglio in una delle discussioni più chiuse e infeconde degli ultimi anni.
Quella sull’agricoltura, sulla produzione del cibo, sulle enormi ricadute ambientali e sociali di un settore che si chiama “primario” non per caso: in esso opera tutt’ora, anche se noi urbanizzati ne abbiamo perso contezza, più della metà della popolazione mondiale. E grazie a esso sopravvive l’umanità intera.
Perché definisco chiuso e infecondo quel dibattito? Perché se una eminente scienziata come Cattaneo, nel suo intervento di ieri, sceglie come obiettivo “il jet-set del biologico” e “la narrazione glamour di chi non ha mai sofferto la fame”; se mette nello stesso sacco, forse per convenienza polemica, biologico e biodinamico, entrambi dediti a “pratiche esoteriche”; se imputa a imprecisati avversari l’idea che “la chimica tout court fa male alla salute”, concedendo una sproporzionata importanza alla sortita di qualche babbeo e/o fanatico; se afferma (su D del 21 di luglio) che “il biologico fa bene, di sicuro, a chi lo produce”, inquadrando il fenomeno, come in altre occasioni, in una cornice furbamente speculativa; beh, vuol dire che siamo ancora molto lontani da quel “dibattito nuovo, finalmente basato su dati e fatti scientifici verificati e su un approccio non ideologico” che la senatrice auspica in chiusura del suo intervento. E siamo molto vicini alla caricatura di un nemico.
Si capisce che la senatrice Cattaneo, autorità mondiale nella ricerca sulle staminali, risenta delle tante pulsioni antiscientifiche che offendono la ragione e ostacolano la ricerca medica. Non si è mai abbastanza d’accordo con lei, su questo punto. Ma dev’essere per eccesso di legittima difesa che, uscendo dal suo campo di conoscenze, la senatrice affronta i temi agricoli con una intransigenza – mi perdoni senatrice – squisitamente ideologica, dunque molto poco scientifica.
Non è scientifica, per esempio, l’affermazione che “l’agricoltura più sostenibile è quella intensiva” (sempre da D del 21 luglio). Altre informazioni contraddicono questa opinione, o per meglio dire la completano dialetticamente. Per esempio: secondo la Fao fame e malnutrizione non dipendono affatto da una sottoproduzione di cibo. Se ne produce quanto ne basterebbe per sfamare dieci miliardi di umani. Se si continua a morire di fame è a causa della povertà e della cattiva distribuzione del cibo. Non perché manca il pane, ma perché non si hanno i soldi per comperarlo. Già questo dato (scientifico), se immesso nel dibattito sul cibo e sull’agricoltura, cambia non di poco giudizi e obiettivi.
Poi. Le ricadute ambientali degli allevamenti intensivi sono, è dimostrato, pesantissime in termini di consumo d’acqua, di emissione di gas metano, di salute pubblica per via della somministrazione massiva di antibiotici che finiscono nel piatto del consumatore. L’impoverimento dei suoli dovuto alle monoculture è conclamato, e la perdita di biodiversità irrimediabile: se per migliaia di ettari hai solo soia, magari per produrre biocarburanti, quella fetta di terra è morta a ogni altra specie. La meccanizzazione è una meraviglia e ha liberato i coltivatori da fatiche bestiali: ma se il peso delle macchine diventa eccessivo i terreni perdono fertilità. I successi tecnologici ed economici a breve termine (quantità di raccolto e di profitto) possono mutare verso se li si analizza a medio e lungo termine: spremere un campo oggi per avere niente domani non è produttivo, è predatorio e imprevidente. I concetti di utilità e di produttività non sono così “oggettivi”: o meglio lo sono a seconda dello sguardo politico (utile a chi? Produttivo per chi?) e soprattutto della loro proiezione nel tempo. Il consumo dei suoli, la rotazione delle colture, la complessa ( e ancora misteriosa) interdipendenza tra le specie – l’uomo tra esse – non sono una branca della magia. Sono biochimica. Sono pura scienza. «La natura è un esperimento scientifico che dura da quattro miliardi di anni». Non mi ricordo chi lo ha scritto. Ma non mi sembra un’opinione impugnabile.
Ne sappiamo abbastanza? No. Ma a non saperne abbastanza non sono solamente quelli del jet- set del bio (sessantamila aziende, cinque miliardi di fatturato, quasi due milioni di ettari coltivati solo in Italia: un jet-set popoloso, direi). A saperne poco, anzi a non volerne sapere niente, sono anche i fondi di investimento cinesi e americani che comperano mezza Africa per sradicare l’agricoltura di auto- sostentamento e imporre l’agroindustria. Non basta nemmeno più la parola “latifondo”, a definire il fenomeno. L’avidità umana non risponde alla scienza, la disciplina che la regola è la legge del più forte. Agroindustria vuol dire anche un modo di produzione, una nuova gerarchia sociale. Vede quanto è complicata l’agricoltura, senatrice Cattaneo: c’è anche la politica di mezzo, a complicare le cose. Così che il “dato scientifico”, in sé solamente un dato, diventa utile, diventa prezioso solo se lo si mette a confronto con altri dati. Spesso contraddittori. Un lavoro faticosissimo, come sa bene chi si occupa di ricerca.
Non si stupisca se le dico, gentile senatrice, che gli agricoltori biologici sono, a modo loro, dei ricercatori. Suoi colleghi magari un po’ strambi, ma con uguale tensione scientifica: cercano di capire come l’estrazione di cibo dalla terra possa lasciarla indenne e ancora fertile. Non è un mondo nostalgico, che si racconta favole sulla “natura buona” e vorrebbe vivere “come una volta”. È un mondo che cerca innovazione, e ha fortissima necessità di tecnologia e di scienza.
Non credo sia possibile (troppa animosità in campo), ma sarebbe bello trovare il modo e la sede per mettere a confronto non solo e non tanto i “dati certi” ai quali lei, come scienziata, si appella. Anche quei “dati incerti” che sono le persone, le loro esperienze, le loro sensibilità. Come hanno già scritto, in polemica con lei, 53 professori e ricercatori (primo firmatario Claudia Sorlini, ex preside di Agraria) «oggi l’agricoltura ha il gravoso compito di nutrire il pianeta, di erogare servizi ecosistemici ed essere nello stesso tempo economicamente, ambientalmente e socialmente sostenibile. Il ruolo del mondo della ricerca è di fornire il supporto scientifico a questo importante percorso, senza sposare acriticamente posizioni di parte».