Corriere della Sera, 24 novembre 2018
La punizione cinese
N on è che stiamo sbagliando mira? Tutti scandalizzati dal video pubblicitario «cinese» di Dolce & Gabbana, in questi giorni. È bruttino e sciocco. E peggiore è probabilmente la difesa che ne è stata fatta nella discussione pubblica. Ma non possiamo non accorgerci di quello che la vicenda racconta di più grande e più grave. Modelle, tecnici, siti di ecommerce cinesi si sono mobilitati come un sol uomo nella punizione della casa di moda italiana. Offesi, dicono, dalla mancanza di sensibilità verso la cultura del loro Paese, hanno messo in pratica un boi-cottaggio di massa, pale-semente non spontaneo, che ha costretto al rinvio della sfilata prevista a Shanghai. Non sappiamo se sia arrivato un ordine da qualcuno al vertice del partito e del governo o se la scintilla sia scoccata dal-lo zelo di un funzionario intermedio. Sappiamo pe-rò che la «punizione» eco-nomica e commerciale è una pratica consolidata, un modo di fare che in Cina si applica a un passo falso, a un errore o a qualsiasi cosa ideologica-mente e politicamente sgradita venga compiuta. Quando, nel 2010, il comi-tato norvegese del Nobel per la Pace premiò il dissi-dente Liu Xiaobo, Pechino bloccò l’importazione di salmone dalla Norvegia fi-no al 2017. L’Australia ha accusato le autorità cinesi di interferire nella propria politica interna: la reazio-ne è stata violenta sul pia-no verbale ma ha anche preso la forma di ostacoli all’importazione in Cina di vino australiano. Ogni go-verno del mondo che in-tende avere un rapporto con il Dalai Lama deve camminare sulle uova: le sanzioni cinesi arrivano regolarmente quando il leader tibetano viene rice-vuto. Da quest’anno, le compagnie aeree interna-zionali che non definisco-no Taiwan parte della Re-pubblica Popolare vanno incontro a sanzioni. E così via, innumerevoli imprese hanno dovuto chinare il capo e spesso negare i propri valori per salva-guardare la loro quota di mercato nel Regno di Mezzo. È che, quando ser-ve, l’ambiente di business cinese è usato dalle auto-rità per rovesciare posizio-ni ritenute antagoniste o sgradevoli. Ovunque, nel mondo, un imprenditore può fare un errore, usare un linguaggio inappro-priato. Di solito sono i consumatori e il mercato a stabilire la gravità del fat-to. Solo in Cina è costretto a produrre un video umi-liante nel quale fa autocri-tica pubblica, come ai tempi della Rivoluzione Culturale del presidente Mao: ora che Pechino si sente potente, la riedu-cazione la applica su scala globale.