il Giornale, 23 novembre 2018
Ristoranti, mancano camerieri bravi?
«Ah, fai l’attore. E in quale ristorante?». La battuta pare girasse qualche anno a Hollywood e dintorni e fotografa il modo in cui è concepito spesso il lavoro da cameriere nei locali. Un riempitivo, un modo per sbarcare il lunario tra una scrittura e l’altra. Ciò accade anche oggi. Molti giovani fanno i camerieri a cottimo in pizzerie e locali da sbarco, magari nei week-end. Per bisogno o noia, senza passione. E il risultato è sotto i denti di tutti.
Diciamocelo: la sala è da qualche anno il vero tallone d’Achille della ristorazione italiana. E se quella «alta» pesca comunque nell’eccellenza delle poche grandi scuole di formazione, è come sempre la ristorazione media a soffrire di più. Diceva Massimo Bottura a Identità Golose (era il 2014): «Una cucina cattiva vale il 100 per cento dell’esperienza, una cucina buona ne vale il 48, perché il restante 52 è dato da altro». Insomma, un buon cameriere non potrà mai compensare un cattivo chef, ma un pessimo cameriere riuscirà certamente a rovinare il lavoro di un buono chef.
Che poi il problema non è soltanto quello dei camerieri. Ci sono altre figure professionali a cui affidiamo il nostro benessere e la nostra soddisfazione durante una cena, stellata o no: il maître, sommelier, il barista, e alle volte ci si mette anche il patròn che in sala gigioneggia, sta a tavola con i suoi amici trattato come un sultano.
In parte è l’effetto Masterchef. La sovraesposizione mediatica ha trasformato chi spignatta in figure leggendarie, desiderate. I bambini guardano Cracco in tv e sognano di fare gli chef. A nessuno viene in mente di lavorare in sala vestito come un pinguino. Poi c’è anche il punto di vista dell’imprenditore della ristorazione, che preferisce investire sullo chef, sul food cost, sull’architetto che ristruttura il locale, sulle pr. E risparmia sul personale di sala considerando un costo inutile l’investimento su quello qualificato.
Certo qualcosa sta cambiando. «Ho visto dei miglioramenti negli ultimi anni – ci dice Alessandro Pipero, patròn dell’omonimo ristorante di Roma e animatore di Noi di Sala, associazione che da anni si batte per valorizzare i frontmen della ristorazione -. Resta il fatto che in cucina lo chef ha lo strumento degli argomenti, della fantasia, della tecnica per sparigliare le carte e in chi lavora sala no». Ma di certo «il cliente cerca l’umanità in un ristorante, non la buona cucina. È l’uomo che cambia il destino di un ristorante. Sa qual è la figura del futuro?». No, quale? «L’oste di una volta, quello che ti faceva sentire a casa. L’uomo è la pietanza più importante».
Convinto dell’importanza della sala è Antonio Guida, chef di Seta, ristorante due stelle di Milano. «La sala ha il potere di far diventare il ristorante un grande ristorante oppure un ristorante mediocre – ci dice -. Per me il successo di qualsiasi locale è 50 sala e 50 cucina». Per questo Guida offre sempre nuove competenze ai suoi collaboratori, per renderli più partecipi: «Faccio loro sporzionare la carne o completare il piatto con un piccolo gesto, aggiungendo un ingrediente o delle salse. Ma per me ognuno deve avere il suo ruolo ben distinto. Per questo non mi piace vedere chef che servono in sala».
Sommelier superpremiato è Marco Reitano della tristellata Pergola di Roma, che vanta secondo molti il migliore servizio d’Italia. Eppure Reitano lamenta la mancanza di personale «a tutti i livelli. Mancano i professionisti a cui affidare il servizio di sala e di conseguenza il resto del personale non riceve la corretta formazione interna. Chi fa questo mestiere ad alto livello trova più opportunità anche economiche all’estero. I neodiplomati degli alberghieri vengono dispersi in impieghi stagionali che non fanno crescere professionalmente».
Chi prova ad accrescere la professionalità è Dominga Cotarella, figlia del più noto enologo italiano (Riccardo), che con le cugine Enrica e Marta qualche anno fa ha aperto la scuola di formazione per personale di sala Intrecci, che ha sede a Castiglione in Teverina. «Mangio al ristorante tutti i giorni – ci dice Dominga – e ho avuto il vantaggio di analizzare il problema dalla prospettiva del cliente. Notavo la mancanza della cultura dell’accoglienza. Poi quando abbiamo fatto la follia di aprire questa scuola ci siamo resi conto che i giovani, se accesi, sono entusiasti. Noi insegniamo anche come si illumina e si decora un locale, facciamo lezioni in tre lingue, abbiamo fatto una masterclass di due giorni sul sale, sì e abbiamo visto quanta passione possa suscitare la competenza».
Ricominciamo dal sale.