Insegnare felicità, applicata al mondo del lavoro, mette responsabilità sul docente. Ci racconta chi è, professore?
«Sono nato a Perugia, figlio di un albergatore che ha inventato il logo “L’Umbria ha un cuore verde”. Sono stato tra i più giovani direttori d’hotel in Italia. Ho chiuso gli esami a Legge da fuoricorso discutendo una tesi sulle norme degli agenti di viaggio. Voto basso. Di tutto quello che ho studiato a Giurisprudenza non ricordo più niente».
Quando si avvicina ai nuovi studi: la felicità in azienda.
«A una fiera alberghiera, fine anni Ottanta, conosco alcuni professori americani. Mi innamoro di quella cultura e decido di partire per gli Stati Uniti e all’Università Virginia Tech mi specializzo in ospitalità e turismo. Poi il Dottorato, stesse discipline, voti decisamente più alti. Al ritorno a Perugia ho chiesto a mia madre: “Sei soddisfatta di me?”. Mi ha dettto: “Sì, certo, ma il livello culturale di tuo padre è insuperabile”. Avevo vissuto la prima parte della mia vita cercando di essere accettato dalla famiglia. A 37 anni non sapevo chi ero»
Dopo i 37 anni?
«Sono andato a insegnare turismo alla Temple University di Philadelphia, due anni a Parigi con la prestigiosa Cornell. Nel 2008 mi sono trasferito alla Florida International University, le idee chiare. Chiedo di tenere un corso di Dottorato: “Gestisci te stesso, gestisci gli altri”. Ho convinto il Senato accademico. Ne avvio un secondo, molto spinto sulla scienza del sé: “Potere personale”. È diventato il corso facoltativo più popolare dell’ateneo».
La felicità in azienda è materia che si può insegnare?
«Steve Jobs, a modo suo, l’ha fatto. Dalla prima elementare all’università impegniamo ventimila ore su discipline al di fuori di noi e neppure un’ora su noi stessi. Chi non ha coscienza di sé difficilmente avrà successo. La forza interiore può diventare un modello educativo da passare agli studenti e trasferire in azienda».
L’aziendalizzazione dell’università italiana.
«Non è un male. Negli Stati Uniti il rapporto tra accademia e lavoro è naturale, da noi, purtroppo, l’insegnamento mostra tutti i suoi limiti. Tanta teoria, lezioni frontali, uso della memoria per superare un esame. No, serve protagonismo dello studente e una didattica basata sulla vita. Nelle mie lezioni lo speech del professore è un quinto del totale, il resto sono esperienze individuali e collettive degli studenti. Si raccontano, insegno loro a guardarsi dentro. Le tesi sono autobiografie. Quando in aula abbassiamo le luci e impariamo a espellere le energie negative, a dare e ricevere ringraziamenti, i ragazzi iniziano a piangere».
Lacrime collettive. I suoi corsi sembrano training aziendali guidati da un guru.
«Non mi offende il paragone con le aziende: voglio essere un ponte, nel Paese che mi ha formato, tra università e realtà lavorative positive dove il pensiero dell’amministratore è in sintonia con quello dei suoi collaboratori. In Italia i datori di lavoro non conoscono chi hanno intorno».
Con quanti studenti parte, questa mattina, il Master di Economia della felicità?
«Centocinquanta post-laureati di tre dipartimenti, poi continueremo con venticinque. Il prossimo anno avvieremo due corsi di studi, uno in italiano, uno in inglese».
Alla fine è riuscito a superare in cultura e successo suo padre?
«Ho trovato me stesso e ho capito che non era così importante».