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 2018  novembre 21 Mercoledì calendario

Il maestro Chung, Macbeth, le streghe e il male

Il direttore coreano inaugura con Verdi dopodomani a Venezia. “Non è stato facile avvicinarmi alla crudeltà di questa tragedia, che è modernissima. La vera protagonista è Lady”. Damiano Michieletto firma la regia
Con la determinazione e il rigore delle sue origini orientali, e con una cultura ben radicata nei paesaggi musicali d’Occidente, il direttore coreano Myung-Whun Chung, attivo con successo da decenni sul podio di alcune tra le più importanti orchestre del mondo, sta per affrontare alla Fenice di Venezia il Macbeth di Verdi, scelto come titolo inaugurale della stagione. È un’opera feroce e meravigliosa, grondante di stregoneria, delitti e morte. Vi pulsa dentro la medesima natura macabra e ossessiva del capolavoro di Shakespeare da cui è tratta, «e grazie al forte punto di partenza shakespeariano», spiega con fervore Chung, «è particolarmente densa, nel suo tessuto drammatico, la relazione tra musica e parola». Debutterà a Venezia il 23 novembre, con Luca Salsi e Vittoria Yeo nei ruoli principali. A loro spetta il compito di riproporre in scena l’icona più emblematica della coppia coniugale avida di dominio e motivata da una perversa libido imperandi.
Maestro Chung: lei è un interprete appassionato di alcuni titoli di Verdi, diretti alla Fenice e non soltanto. Eppure questo sarà il suo primo “Macbeth”. Perché ha rimandato tanto il confronto?
«Ammiro infinitamente Verdi e la sua straordinaria umanità, ma avvicinarmi al Macbeth non è stato facile. Confesso di essermi sentito distante dalla crudeltà di questa tragedia che assolutizza il male.
Aspetti quali la nobiltà d’animo, il coraggio e l’amore, presenti in altri lavori teatrali verdiani, sono esclusi dal nucleo totalizzante di Macbeth, che è la brama divorante del potere. Soggetto formidabile e modernissimo, ma in cui risulta doloroso immergersi. Mi ha soccorso la musica, che trasforma quella sostanza nera in immagini piene di ricchezza espressiva».
L’espressività dell’opera si realizza fra l’altro in momenti di aspra vocalità: Verdi descrisse Lady Macbeth addirittura come «brutta e cattiva», assegnandole una voce soffocata e cupa.
«È Lady, secondo me, la vera protagonista. Figura gigantesca, è lei l’artefice del destino di suo marito.
Spesso accade così pure nella vita, dov’è la donna, dietro le quinte, a costruire il cammino dell’uomo.
Ma a parte questo, mi preme sottolineare che una voce “brutta” – così in effetti la definì Verdi – non vuol dire una voce ineducata: Verdi era un sostenitore del belcanto. Però intendeva piegarne la tecnica a nuove e più intense finalità espressive. Il soprano cui s’affida la Lady, parte di una difficoltà vertiginosa, deve riuscire a evocare, con la flessibilità della voce, il senso del male incarnato dal poderoso personaggio».
Firma la messinscena veneziana Damiano Michieletto, noto per le sue letture provocanti e per la tendenza a dirottare i libretti nella contemporaneità. Lo farà anche in quest’occasione?
«A mio parere una regia deve avere una solida coerenza drammaturgica nata dalla comprensione della musica e dello spirito del pezzo, e ciò conta molto più del periodo in cui viene immessa. La prospettiva di Michieletto si basa sul passaggio tra reale e surreale, idea plausibile riguardo a quest’opera popolata da incubi, visioni e streghe.
Non c’è nulla di realistico nell’universo onirico e allucinato del Macbeth. Più che dal contesto storico, che in questo caso sarà un’epoca prossima alla nostra, la chiave fondamentale dell’allestimento dipende dal supporre che a monte della vicenda raccontata ci sia stato un lutto: Lady Macbeth ha perso un figlio. L’atroce sofferenza che ha attraversato le dà qualche sfaccettatura in più, infondendole una tristezza che la rende più umana e approcciabile. Trovo l’invenzione del regista giustificata da certi spunti melodici che emergono in passaggi riferiti alla Lady, e che suggeriscono malinconia e nostalgia. La premessa della morte di un figlio si proietta nella messinscena come incarnazione mnemonica, tradimento del desiderio procreativo e pensiero fisso su una discendenza mancata. Per questo nello spettacolo compaiono spesso dei bambini».
Macbeth debuttò a Firenze nel 1847 per poi rinascere a Parigi nel 1865 con revisioni decisive. È a quest’ultima versione che lei si attiene?
«Sì. La trovo più riuscita e più vicina a Shakespeare, e non a caso è quella che viene rappresentata comunemente. Ci sarà solo un’interpolazione ritagliata dalla versione fiorentina, ed è l’aria Mal per me che m’affidai. L’abbiamo inserita per consentire al regista di far morire Macbeth in palcoscenico, dato che la seconda versione non mostra teatralmente la morte del protagonista».
Nella stagione della Fenice saranno numerosi i suoi ritorni. È molto legato a questo teatro?
«Adoro l’incomparabile magia della città, e la frequentazione della Fenice è stata per me lunga, intensa e fertile: vi ho diretto per la prima volta trentacinque anni fa. Quanto al mio percorso verdiano sviluppatosi a Venezia, si è via via intensificato anche grazie a Fortunato Ortombina, prima direttore artistico della Fenice e ora sovrintendente. Condividiamo un amore scatenato per Verdi! In primavera dirigerò Otello, altro glorioso connubio tra Verdi e Shakespeare. Inoltre sarò sul podio del Concerto di Capodanno, evento per l’Unicef il cui programma si concentrerà sui bambini: vi accoglieremo cori infantili. Sempre in ambito sinfonico, farò a Venezia concerti dedicati a Mahler e a Brahms».