Antonello Piroso per “la Verità”, 22 novembre 2018
CELLI, CONFESSIONI DI UN KILLER (QUASI) PENTITO - ‘FAZIO È CRESCIUTO IN RAI MA IGNORA COSA SIA LA GRATITUDINE. LA MAGLIE LA MANDAI VIA MA POI L’INCHIESTA FINÌ NEL NULLA E MI SCUSAI, ANCHE IN UN LIBRO. FRIZZI? IL PROGRAMMA CHE FACEVA NON MI PIACEVA, MA QUANDO LO RIVIDI AL FUNERALE DI BIBI BALLANDI SONO RIMASTO STRAZIATO’. E PER QUELLA STORIA TRA SONIA RAULE, TATÒ E LA NOVELLA PICCANTE… -
Nel suo La stagione delle nomine - il suo terzo romanzo (il secondo, dopo E senza piangere, con identico protagonista, un commissario che ha lo stesso cognome di Angelo Guglielmi, «un omaggio all' intellettuale che ha inventato e plasmato Rai 3") - ci si può divertire a cercare di capire a quali «magnager», boiardi di Stato, pennivendoli prezzolati in combutta con i servizi segreti, damazze da salotto, monsignori, pm, delinquenti incalliti e signorine forse peripatetiche corrispondano i soggetti che popolano le 352 pagine.
Ma anche in questa intervista Pier Luigi Celli, 76 anni, noto alle cronache per aver attraversato per ben due volte le paludi di quel Vietnam chiamato Rai (con esperienze maturate, prima e dopo, ai vertici di grandi realtà, imprese private ed enti di Stato: Enel, Eni, Enit, Luiss, Olivetti, Omnitel, Unicredit) dispensa riferimenti espliciti, alcuni in filigrana, altri ancora criptici, almeno in apparenza.
Mi tolga subito una curiosità: la marchesa Odette de' Riccoboni del romanzo, tenutaria di un salotto molto gettonato da grand commis, giornalisti e barbefinte, ha qualcosa a che vedere con Maria Angiolillo? «Non ho mai accettato gli inviti della signora Angiolillo, che per questo s' infuriava. Se devo vedere qualcuno in ragione del mio lavoro, lo incontro a casa mia, non a casa d' altri».
Be', forse se ci fosse andato, in Rai sarebbe durato di più. Bruno Vespa, per dire, che nel 2019 taglierà i 50 anni nella tv di Stato, era spesso presente. «Ne sono lieto per lui. Quando ero direttore generale dell' azienda, ho difeso gli spazi di Porta a Porta in seconda serata quando il presidente Roberto Zaccaria, con il conforto di consiglieri quali Vittorio Emiliani, glieli voleva ridurre a un appuntamento alla settimana».
Vespa gliene sarà stato grato. «Insomma. Anni dopo, in occasione di un programma sui conduttori tv, ho avuto modo di confessare che non ho mai visto una puntata del suo programma: non lo guardo, dissi, perché non mi piacciono i maggiordomi».
Registro lavandomi pilatescamente le mani. In Rai lei è approdato quando era già un manager fatto e finito. «A 50 anni, a causa di Tangentopoli. Diciamo che c' era un grande autodafè, un quotidiano tintinnio di manette, così sono andati a cercare quelli che non risultavano complici o compromessi. Ecco perché si arrivò alla stagione dei professori a Viale Mazzini, quella di Claudio Demattè, che mi volle come capo del personale».
Poi divenne presidente Letizia Moratti. «Che mi confermò salvo defenestrarmi poco dopo».
È vera la leggenda per cui lei scese al bar da dirigente e ritornò in ufficio da licenziato? «Arrivai al mattino e, come al solito, tutti che s' inchinavano al mio passaggio. A metà mattina andai a prendere un caffè al bar Vanni, dovevo incontrare una persona. Rientrai nel palazzo, e mi accorsi che le stesse persone che poche ore prima si scappellavano, adesso nel vedermi si chiudevano in stanza. Arrivato nella mia, trovai la segretaria in lacrime: "Dottore non ha saputo niente? Le agenzie hanno appena battuto la notizia del suo licenziamento"».
Brutalmente fottuto, e mi scusi la volgarità, ma avendo lei scritto un pamphlet intitolato Comandare è fottere...Ma se sapeva che bell' ambientino è la Rai, perché ha accettato di tornarci nel 1998? «In realtà a offrirmi l' incarico di direttore generale una prima volta fu nel 1996 Luciano Violante, che da presidente della Camera aveva per legge, insieme al presidente del Senato, Nicola Mancino, l' onere di nominare i vertici della Rai. Gli chiesi chi fossero i componenti del consiglio di amministrazione, e sentiti i nomi risposi: no, grazie. Non mi sembravano tutti attrezzati per il compito che li aspettava».
Vabbè, un nome lo faccio io: era la Rai del presidente Enzo Siciliano. Cosa le fece cambiare idea due anni dopo? «Quel cda era decaduto, e fui sottoposto a un vero e proprio pressing, iniziato da Claudio Velardi e continuato da Massimo D' Alema e Franco Marini. Ma io stavo tanto bene all' Enel, e dicevo a Franco Tatò: "Tu li conosci, diglielo tu, mi lascino in pace", tanto più che lì, da capo del personale, ero strapagato. Quanto? Non ricordo».
Le rinfresco la memoria: 574 milioni di lire l' anno. «Sì, mi pare la cifra fosse quella, in Rai mi davano la metà. Ma la moral suasion fu tale (mi dicevano: "Se lei non accetta il risiko delle caselle del nuovo CdA non lo completiamo") che alla fine dissi sì».
Tatò ha scritto a Dagospia per dire che l' addio tra voi avvenne «con qualche asprezza», all' interno di una lettera in cui smentiva di averle chiesto di far condurre il Festival di Sanremo a sua moglie Sonia Raule, declassandola a ironica boutade. Concludendo: «È una fake news. Gli imbecilli hanno cattiveria, ma non senso dell' umorismo». «Guardi, con Tatò ci siamo visti dopo questo episodio, quindi lo possiamo considerare archiviato».
La ruggine tra lei e Sonia Raule risalirebbe però a un episodio ben preciso. In un suo libro del 2002, Breviario di cinismo ben temperato, c' è il racconto su un manager non più giovane che si innamora di una ragazza che non riesce a soddisfare, e finisce per accontentarsi di vederla con un' altra donna. «Piroso, perché inziga?».
Oh, santa pace, Celli: lei ha scritto una novella, e Sonia Raule l' accusò di aver fatto «una cosa tremenda: Celli non ha fatto nomi, ma l' allusione era anche troppo chiara». «Lei non ha idea di quanti grattacapi mi ha procurato quel capitoletto, quante persone mi hanno cercato sentendosi chiamati in causa dal parto di una mia fantasia. Ma, appunto, non c' era alcun riferimento a persone in carne e ossa».
Le è mai capitato di pentirsi per una decisione che, con il senno di poi, poteva evitare di prendere? O per un giudizio che poteva risparmiarsi di esternare? Le faccio tre nomi: Fabrizio Frizzi, Maria Giovanna Maglie, Renzo Arbore. «La trasmissione che Frizzi faceva non mi piaceva, ma lui era una persona ammodo e perbene. Quando in un' intervista parlai di trasmissioni per cui provavo "vergogna" pensavo in realtà a Domenica in (sono andato a verificare: in effetti c' è un articolo di Repubblica del maggio 2002 che recita testualmente: «Celli ha specificato che non si riferiva al programma di Frizzi», ndr). In ogni modo, l' ho rivisto ai funerali di Bibi Ballandi e sono rimasto straziato. Quanto a Arbore, che ho sempre considerato un grande showman, ho reagito a una sua accusa».
Sparando a palle incatenate, mi consenta: scrisse al Foglio, 23 maggio 2002, che non lo aveva cacciato, piuttosto era lui a non avere più idee, per questo viveva di rendita. Squadernando con meticolosità i compensi suoi e quelli dell' Orchestra italiana. «Anche qui non ricordo le cifre, rammento che gli chiesi semplicemente di tornare in pista, mantenendo quei meritati cachet stellari, ma su una delle tre rei Rai principali, e non nel comodo ridotto di Rai International. Ma lui non ne volle sapere».
Con la Maglie invece come andò? «Da capo del personale le chiesi di dimettersi perché dalle nostre risultanze c' erano, chiamiamole così, "anomalie" in merito alle sue note spese a New York».
Solo che il pm chiese l' archiviazione per la presunta truffa, anche perché la Rai, a quanto risulta, neanche si presentò quando fu convocata per i riscontri. «Io non ero già più in azienda, ma ebbi modo di rammaricarmi, con il senno di poi, per tutta quella vicenda, lo scrissi in un libro e lo dichiarai ai giornali».
E la Maglie replicò per iscritto che erano scuse tardive, nel 2000, accusandola di essersi pentito perché sentiva che la stagione politica del centrosinistra, suo sponsor, era agli sgoccioli. Al netto della diatriba, è un fatto che lei stesso avesse percepito il cambio di clima quando in una riunione accusò i dirigenti Rai di essere alla plateale ricerca di un riposizionamento. «Dissi che il loro modo di comportarsi faceva "leggermente" schifo».
Però poi si dimise lei. «Zaccaria e gli altri avevano schierato la Rai a difesa del governo in vista delle imminenti elezioni, secondo me non era giusto e non portava neppure bene. E infatti il Cavaliere fece cappotto».
Mi verrebbe da dire, richiamando il titolo di un altro suo libello: ecco Come si maneggia il mondo. «L' importante è cercare di addomesticare il delirio di onnipotenza. Non le faccio i nomi, ma ci sono due persone cresciute in Rai che sanno di televisione, uno a livello di programmi, l' altro d' informazione. Ma a loro non basta essere tra i migliori in circolazione. Reputano di essere gli unici, e irripetibili. Per la serie Apres moi le deluge. Con una differenza: il primo almeno ha fatto crescere una squadra, anche se gestita e controllata con severo cipiglio; l' altro parla male di chiunque, in primis tutti i suoi colleghi».
Non si sta riferendo a Fabio Fazio e al sontuoso contratto che il dg Mario Orfeo si è precipitato a firmare appena insediato? «Con me Fazio ha condotto due Festival di Sanremo e quello che posso dire è che ignora il significato della parola gratitudine. Del suo contratto nulla so, le dico però cosa feci io quando, appena diventato direttore generale, mi trovai sulla scrivania un contratto da 5 miliardi di lire per un film di 90 minuti di Bernardo Bertolucci. Non lo firmai. Subii una serie di telefonate e pressioni perché "Bertolucci è Bertolucci, se non accettiamo lo farà con Mediaset". Fu ciò che successe. E fu un flop».
Per finire le chiedo: si ricorda con quale rima baciata si chiudeva un suo epigramma autobiografico? «Ha studiato dai salesiani, per questo taglia solo teste e mani; avesse studiato dai mormoni taglierebbe anche i...
«L' importante è non farseli tagliare».