Avvenire, 22 novembre 2018
L’Orazio casual di Ceronetti
«Torna la primavera e il verno sciogliesi,/ Tornan le navi all’acquietato mare;/ Né copre il gelo i prati…». Così inizia la quarta ode del primo libro delle Odi di Orazio, tradotta «da Giacomo Leopardi nell’anno decimo dell’età sua». Ed ecco lo stesso inizio nella bella versione di Guido Ceronetti: «Dell’inverno il rigore cade: è l’amabile/ Risuscitare di Primavera/ Coi suoi zefiri blandi; gli argani trascinano/ gli scafi asciutti in acqua…». La fine dell’inverno, il mare come simbolo… Alcuni dei temi oraziani. Un altro è la guerra, che se non ricorre tanto come altri temi, quando appare è sempre per condannarla e per opporla alla vita e ai suoi piaceri. Già con Catullo e con i poeti elegiaci Tibullo, Properzio, il lessico della guerra, da loro odiata allo stesso modo, inizia a essere usato, sistematicamente, per quella lotta che è l’amore. L’ode 33 del primo libro è dedicata proprio a Tibullo che si lamenta per amore, come sempre. L’Orazio di Ceronetti ( Odi, Adelphi, pp. 122, 12 euro) lo rimbrotta nel modo più esplicito e deciso, più diretto di Orazio stesso – « Albius, ne doleas plus… » – e dell’altro suo traduttore Mario Ramous – «Albio, Albio, non dolerti così al ricordo…» –. Orazio-Ceronetti lo riprende così, con la minima pietà della virgola dopo il nome: «Albio, falla finita/ Con quella Glìcera…».
Ma quali sono i temi veramente essenziali della lirica oraziana? Milo De Angelis intitolava L’amore, il vino, la morte un suo libretto di traduzioni dall’Antologia Palatina. E L’amore, il vino, la morte può essere il titolo di un saggio sulla poesia di Orazio, cantore di tutti e tre, anche se un po’ meno dell’ultima. Ma se non cantata, la morte tra tutti i soggetti della sua poesia è il più profondo, e profondamente conosciuto. La morte che non va quasi mai disgiunta dal vino, presente ovunque, nelle odi più leggere come nelle gravi.
È utile chiedersi in che ordine si siano susseguite le traduzioni di Ceronetti, tutte di grandi e alcune che contendono con gli originali in forza e intensità (si consideri che gli originali sono, oltre i latini, il Cantico dei Cantici, Qoèlet, Isaia, Giobbe…); quale sia venuta prima o quale dopo. Insieme a Kavafis, questo Orazio è il più lontano da lui degli autori che ha scelto di tradurre, i più vicini restando Marziale, Catullo, Giovenale. E Qoèlet, il più prossimo di tutti e forse la sua migliore traduzione. Orazio l’ha affascinato fin da ragazzo e si è provato a tradurlo giovanissimo. Sappiamo anche che queste traduzioni le giudicò (quasi) concluse intorno ai primi anni Ottanta (nel volumetto compare una prefazione del 1982). Sarà un Orazio nutrito degli altri poeti latini più infiammati, tradotti forse prima di lui? O infiammato dal Qoèlet, addirittura? Oppure fu affrontato tra i primi proprio lui, il mite ed equilibrato per definizione? Quel che è certo è che Ceronetti non poteva tradurre se non infiammatamente sempre.
Il risultato è un Orazio quasi incredibile, sempre giovane o giovanissimo, si direbbe, come se tutte le odi le avesse scritte a vent’anni. L’autore- traduttore sceglie di esplicitare quello che il poeta latino era anche, ma molto in profondità. Scelta rischiosa, perché il classico latino è quello che è, lui da solo, per aver occultato o spento quel fuoco. L’ultraclassico, il bilanciatissimo, per non rischiare il minimo squilibrio ricorreva alla fuga da tutti gli estremi, con la scrittura più ambigua di tutte a forza di medietà. E dal fuoco perenne, è vero – o più calore che fuoco – per l’energia tanto repressa. Le altre traduzioni sono tutte precedenti salvo quella di Kavafis. Anche se ciò non ci assicura sulla composizione, che può essere iniziata e poi ripresa lungo gli anni. A poco più di un mese dalla morte di Ceronetti, è facile aggiungere un’altra eco ai tanti versi che alla morte ha dedicato il poeta latino. Molti dei quali anche tra queste versioni: «Sesto, uomo felice, troppo breve/ È la vita perché in speranze/ Interminabili la si trascini». Oppure nell’ode famosa del Soratte (I, 9): «- Come sarà il domani? – Quest’ansia fuggila./ Quanti giorni prescritti/ T’abbia la Sorte, vivili/ Come un raro guadagno, ragazzo mio».
Poco prima nella stessa ode, altri versi sul vino, che in nessun altro poeta occidentale come in Orazio appare così reale e insieme simbolico, così sacro: «E il vino che è nell’anfora sabina/ Coi manichi, di quattro anni,/ Stappa, consuma tutto./ Gli Dei compiano il resto». Ceronetti dice stranamente di diffidarne, «Non berrei una goccia dei suoi vantati e sempiterni vini», anche se è lo stesso vino che ricorre lungo tutto il suo amato Qoèlet.