la Repubblica, 22 novembre 2018
Per salvare la pecora mettiamola in pentola
I bambini guardano estasiati le pecore. Forse ricordano le ninne nanne cantate da mamme e papà: «La mucca col vitello, la pecora e l’agnello…». I grandi, a pochi metri di distanza, invece leggono un menu. «Raviolo aperto di pecora cornigliese su crema di ricotta… Paté di pecora con castagne…». Succedono cose strane, su queste montagne parmensi. Da un lato si annuncia il “Gemellaggio delle tre pecore”, razze pregiate e a rischio estinzione: le Rosset di Valgrisenche in Val d’Aosta e le Lamon del Veneto, arrivate qui per allearsi con le colleghe di Corniglio. Pecore unite nella lotta per la sopravvivenza. Dall’altro, si insegna a valorizzare e apprezzare la loro carne.
«Potrà sembrare strano – dice subito Ettore Rio, 56 anni, padrone di 450 cornigliesi – ma riusciremo a salvare la pecora solo mettendola in pentola. Un tempo veniva allevata per la lana, il latte e infine per la carne. Ora, almeno le mie Cornigliesi danno reddito, poco, solo andando al macello». Un assaggio di prosciutto crudo, una fettina di brasato… «Nella valle vicina, a Monchio delle Corti – racconta il pastore – subito dopo la guerra c’erano 8.000 pecore e 4.500 abitanti. Ora le pecore sono scomparse e gli abitanti sono mille. La lana rendeva bene, perché la cornigliese era stata incrociata con la Merinos. Si facevano abiti, calze, maglie. Poi con gli arrivi massicci dall’Australia il mercato è andato in crisi e adesso la lana è diventata addirittura un “rifiuto speciale” e devi pagare per smaltirla. Se anche riuscissi a venderla, i prezzi sono questi: 0,40 euro al chilo ( ogni pecora ti dà due chili) mentre per la tosatura spendi 2 euro a capo. Fino a pochi mesi fa c’era un commerciante di Bergamo che la comprava: ha chiuso, perché il costo per depurare le acque era più alto di quello della lana». «Le razze in via di estinzione – dice Fausto Giovanelli, presidente del parco nazionale dell’Appennino tosco emiliano – in un recente passato hanno salvato da morte certa le comunità di queste montagne. Non possiamo permettere che scompaiano».
L’incontro delle “Tre montagne per tre pecore” – organizzato da Anna Kauber, che per due anni ha girato l’Italia per raccontare le donne pastore – è stato ricco di convegni ma anche di tavolate. «Non è stato facile – racconta Alberto Lambertini, chef del ristorante Claudia – riportare la pecora nei piatti. Abbiamo lavorato in collaborazione con Alma, scuola internazionale di cucina italiana. Tanti giovani non hanno mai assaggiato questa carne e allora l’abbiamo proposta anche con nuove preparazioni. La presentiamo come battuto crudo, dopo che la pecora è stata per 50 giorni a 20 gradi sottozero. Facciamo la mousse di pecorino con crema e chips di funghi porcini ma il piatto forte – almeno il 50 per cento dei secondi piatti – resta il brasato con sedano, carote, cipolle e una lunga cottura nel tajine, la pentola del Nord Africa. Ormai usiamo una pecora a settimana».
In Italia, le pecore a rischio d’estinzione sono soprattutto quelle dell’alto Appennino e delle Prealpi. «Alla fine dell’800 – racconta Danilo Gasparini, docente di storia dell’agricoltura e dell’alimentazione nell’ateneo di Padova – su Alpi e Prealpi, fra Verona e il Friuli, si contavano 700.000 pecore e pochissime vacche. Poi, con l’apertura delle latterie sociali, le mucche hanno preso il sopravvento. Producevano più carne e latte e anche il concime per i campi». In un angolo, fra venditori di formaggi, sciarpe e poncho (c’è ancora qualche artigiano che lavora la lana) una pittrice, Chiara Cerea, continua a dipingere bellissimi acquerelli con pecore, capre e paesaggi. Si spera che non restino il solo ricordo della Cornigliese, e delle sue sorelle.