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 2018  novembre 22 Giovedì calendario

Intervista all’attore Marcello Fonte

L’infanzia di Marcello Fonte è terribile e poetica. Il minuto attore di Dogman, “ammoree”, la racconta con sincerità, crudezza e umorismo nell’autobiografia Notti stellate. Settimo figlio in una famiglia povera, l’infanzia tra le baracche della fiumara di Marrani, periferia di Reggio Calabria. I topi accarezzati come gatti, i ragazzini violenti, la discarica che è supermercato e parco giochi, l’incidente d’auto, il coma. La scoperta della musica, il tamburo e la banda del paese. Roma, il riscatto e il cinema. La Palma d’oro per Dogman di Matteo Garrone, che ora rappresenta l’Italia agli Oscar. Fonte è appena tornato da Los Angeles ad Africo, sul set del film di Mimmo Calopresti Via dall’Aspromonte.
È sopravvissuto a un’infanzia fisicamente durissima.
«Anche la mia pelle era dura. Non mi facevo mettere il cerottino da mamma. Toglievo i chiodi arrugginiti dai piedi e continuavo a camminare. Ora sono qui sul set sull’Aspromonte, a piedi nudi, nel fango. Interpreto o’poeta, lo scemo del villaggio. È un film a cui tengo molto, abbiamo dato luce a questo paese abbandonato. Tutti qui hanno lavorato al freddo, sotto la pioggia. A Los Angeles mi facevano compagnia le foto di peperoni ripieni e melanzane sul gruppo whatsapp, mi sono inserito in quello dei figuranti di questo film per dare loro la carica: quel lavoro l’ho fatto e lo rispetto. C’è una scena con un funerale dove piangevano davvero, perché significava riportare in vita quella storia vera che era successa: una mamma muore col proprio bambino perché non c’è una strada per far arrivare il dottore».
Nel libro lei racconta fatti terribili e divertenti.
«Appena scomparso mio padre ho scritto il monologo Peppino Fontana, per esorcizzarne la morte. E anche perché ho preso da lui: il modo di raccontare, le pause comiche. Era un attore senza saperlo, zappava la terra. Fellini o Pasolini lo avrebbero voluto. Un genitore t’insegna anche quando non lo sa».
Quando si è reso conto che la sua vita era fuori dal comune?
«Passando da un mondo di solitudine che era la fiumara alla vita reale, la scuola. La prima volta che ho visto il bidet a casa di un amico e ho capito cos’era. Mio padre ne teneva uno in giardino, ci piantava il prezzemolo. Nella vita normale c’erano case in cui ognuno aveva una stanza. Il mio bagno era un sottoscala e la pipì colava da sopra, scaldavamo l’acqua per lavarci. A Roma ho capito che era questo che dovevo raccontare».
Un passato che altri avrebbero nascosto.
«All’inizio mio fratello mi aveva detto di non raccontare queste cose. A sedici anni era venuto a Roma per studiare. Mi chiese di scrivere il curriculum, non sapevo cosa fosse. Scrissi a modo mio, il tamburo a dieci anni, il meccanico, il resto. Lui rideva e io non capivo perché. Ho scoperto però che mi piaceva scrivere quella mia vita che doveva restare nascosta e invece ha fatto il giro del mondo».
Nell’ultimo capitolo c’è l’esperienza a Roma.
«Una cantina rubata era la mia casa. Ho vissuto tutta la vita da abusivo, purtroppo a volte le cose te le devi prendere. Mi dispiace dello sgombero del Baobab, che si tolga la possibilità ai giovani di far del bene. Certi luoghi sono punti di riferimento: al cinema Palazzo, dove ero custode, veniva la signora Adele, ottant’anni, con la sua sedia, le madri di famiglia con i figli che imparavano a usare una consolle, invece che a fare le bustine di droga. Bisogna difendere questi luoghi, non andargli contro. Uno spazio vuoto non serve a nessuno».
Il suo primo set?
«Nino Manfredi, Una storia qualunque in Piazza Vittorio. Gli ho fatto compagnia fino alle quattro del mattino, gli chiedevo “perché avete fatto l’attore?” e lui “non credevo in me, lo ha fatto un regista”. Ho ancora la foto, ho documentato sempre la mia vita, per istinto. Roma significa la macchina fotografica che mi ha regalato mio fratello. E il mio riscatto. Nell’arte mi ci trovavo bene, a mio agio, compreso».
E poi il set di “Gangs of New York”, Day-Lewis scatta la foto con lei e DiCaprio.
«Con Scorsese siamo stati a cena insieme a Los Angeles, gli ho fatto vedere quella foto rubata e quella della troupe in cui mio ero infilato anche io. L’ho salvato da una cena pallosissima: per venti minuti ha continuato a ridere, a mostrare la foto agli amici, spiegando chi c’era».
Com’è stato il viaggio a Los Angeles?
«Un viaggio di lavoro. Raccontare le cose belle sul film, il rapporto con Matteo, artista straordinario e amico sincero. Ma non mi interessa più farmi le foto con le celebrità, ora ho capito il mondo com’è».
E com’è?
«Mi interessano le persone solo se posso parlarci davvero. In viaggio verso Telluride ho incontrato Herzog, si è interessato alla mia storia. Non ho paura di restare me stesso».
Com’è cambiato il rapporto con sua madre?
«È stata qui in albergo con me, ha girato il film di Mimmo Calopresti.
Fa l’attrice a ottant’anni, il mio Asino vola e ora questo. Al paese vanno a prenderla con gli autisti. Non è più la signora della discarica, ma la mamma di Marcello Fonte. Però se allora l’avessi ascoltata ora sarei a zappare con lei. Adesso ha capito che il cinema è un lavoro serio».