la Repubblica, 22 novembre 2018
Titoli di Stato, allarme liquidità. Più difficili le aste del 2019
La lingua batte dove il dente duole. Ossia sulle patrie banche, che per quanto rafforzate dagli anni scorsi potrebbero ancora rivelarsi la miccia del sistema, se il rischio paese si stabilizza oltre quota 300 e la congiuntura s’affloscia. Le banche sono da sempre il perno dell’Italia, piaccia o no: e solo per questo stanno in mezzo a tutti i guai. Lo spread rincara? Scendono in Borsa, perché si deprezzano i loro 364 miliardi di euro in titoli del Tesoro che valgono 1,5 volte i loro patrimoni. Gli italiani non accorrono come un sol uomo alle aste dei Btp? I grandi istituti attrezzano il cordone sanitario salvare le emissioni pubbliche (chiedere a Intesa Sanpaolo, Unicredit, Poste e Generali, che alle ultime aste hanno fatto più della loro parte). I programmi del governo Lega-M5S rallentano la marcia del Pil a zero, e i cittadini si mettono alla finestra anziché consumare e investire?Cessano di incassare commissioni e riprendono a imbarcare perdite su crediti.
Un groviglio che spiega perché cresce il coro di moniti, auspici, e pizzini che politici, tecnocrati e investitori inviano al sistema perché raddrizzi la rotta in vista dei bivi 2019.
Le aste di fine anno in via XX settembre sono leggere; ma a gennaio vanno trovati 51 miliardi, più della media mensile dei 415 da emettere nel 2019. Serviranno investitori ispirati, banche comprese. Ma lo scenario non è questo, anche per un paio di effetti collaterali del caro spread. Primo. Gli istituti portano molti loro titoli di Stato alla Bce, che li tiene in garanzia in cambio di liquidità: ma ciò avviene sul valore di mercato, non certo sul nominale. Poiché in sei mesi i Btp hanno perso circa un quinto, quella fetta di liquidità è venuta già meno in proporzione: e sul mercato, anche dei mutui casa, si vedono i primi rincari.
Liquidità ne rimane, anche grazie alla politica monetaria: ma se a gennaio finiranno gli acquisti Bce sui titoli di Stato, e se da giugno 2020 andranno rimborsate le aste Tltro di Francoforte a tasso – 0,4% alle banche europee, la liquidità calerà. Gli italiani nel 2017 furono in prima fila a prendere quei soldi: dovranno ripagarne per ben 237 miliardi, con cassa o nuovi bond emessi sul mercato. Ma quali bond, se a novembre il subordinato Carige da 320 milioni per ricostituire il patrimonio di vigilanza ha dovuto comprarselo il Fondo tutela depositi, pena la crisi?
Le emissioni calde a sei mesi dovrebbero essere un subordinato Mps da 750 milioni, richiesto dall’Ue nel piano di aiuti di Stato, e l’aumento di capitale di Popolare Bari, sui 350 milioni da trovare presso nuovi investitori, non i delusi soci pugliesi: ma per fare la nuova spa serve prima che la Corte europea si pronunci sulla riforma del 2015. Non solo Siena e Bari troveranno arduo tornare sul mercato, in una fase in cui il capo investimenti del fondo Pimco – tra i primi al mondo – può dire: «Un default sovrano in Italia è improbabile ma non si può dire a rischio zero. Lo scenario più plausibile è un misto tra emissioni in una valuta parallela o persino una ridenominazione del debito».
Ieri Andrea Enria, capo in pectore della vigilanza bancaria europea, tra le prime uscite ha promesso «un focus importante dei supervisori sui piani di finanziamento delle banche, per essere sicuri che siano robusti in uno scenario economico avverso del debito sovrano». Con questo in testa, e senza sbandierarlo, più di un banchiere nel pianificare le operazioni di tesoreria sta allineando le scadenze dei propri Btp a quelle dei rimborsi del Tltro. Allora diverrà sempre più difficile l’autarchia sul debito sognata dal governo, e ancor più eroico provare a fermare i venditori di Btp e azioni vietando le vendite allo scoperto (senza ancora possederli). Un divieto spesso imposto da Consob sulle fragili Carige e Mps, non per questo salvate dal massacro.