22 novembre 2018
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Biografia di Nicolás Maduro Moros
Nicolás Maduro Moros, nato a Caracas il 23 novembre 1962 (56 anni). Politico. Presidente del Venezuela (dal 19 aprile 2013). Già vicepresidente del Venezuela (2012-2013) e ministro degli Esteri (2006-2013). Presidente del Partito socialista unito del Venezuela (dal 2013) • «Figlio di una colombiana e di uno dei più noti leader sindacalisti della provincia di Caracas, Nicolás Maduro ha seguito le orme del padre ancora adolescente» (Roberta Zunini). «La politica, ce l’ha nel sangue sin da ragazzo. Non si è mai laureato, ma alla scuola superiore passava per “uno dalla mano dura e dai giochi pesanti”, ricordano oggi alcuni suoi vecchi compagni. Amava il rock più della lambada, militava per la “Lega socialista” ma in pochi prendevano sul serio il suo impegno politico. Grazie al fisico possente da giocatore peraltro scarso di baseball ai tempi delle superiori, nel 1983 viene assunto come bodyguard disarmato del candidato presidenziale dell’epoca, il giornalista José Vicente Rangel. Stesso incarico che svolgerà poi anche per Chávez, durante la sua prima trionfale campagna presidenziale, nel 1998. I soldi a casa, però, […] Maduro li porta guidando la metrò e diventando il presidente del sindacato di categoria, anche se, a detta di alcuni colleghi che evidentemente non lo amano, era il macchinista “con più incidenti e assenze nel curriculum”. […] A Hugo Chávez deve tutto. Un’amicizia, la loro, che affonda le sue radici nel golpe tentato nel 1992 dall’allora tenente colonnello dei paracadutisti. Il futuro presidente venne arrestato, Maduro cominciò a fargli visita. Prima con sospetto – si trattava pur sempre di un militare –, poi da amico, sino ad arrivare a percorrere assieme i gradini del Palazzo presidenziale di Miraflores» (Paolo Manzo). «Chávez lo volle con sé tra i fondatori del Movimento V Repubblica, il partito bolivariano che nacque in quegli anni tra i giovani ufficiali dell’esercito. Con l’avvento di Chávez in politica, nel 1998 Maduro venne eletto deputato» (Omero Ciai). «La svolta di una vita tutto sommato disordinata arriva grazie alla sua fedeltà a Chávez e, soprattutto, al matrimonio con la moglie Cilia Flores, già presidente del Parlamento come del resto lo stesso Maduro, […] procuratrice generale della Repubblica e passionaria del Psuv, il Partito socialista unito del Venezuela. Accusato, senza prove, di arricchimento illecito nel 2004 dall’opposizione, nell’agosto del 2006 diventa ministro degli Esteri ad appena 43 anni. Un record. Nella storia rimangono alcune sue celebri performance, come quando definì il controverso sottosegretario agli Esteri di Bush jr, John Negroponte, un “piccolo funzionario con la fedina penale sporca”, o come quando […] sbatté i pugni davanti ad una sbigottita assemblea dell’Organizzazione degli Stati americani per chiedere il ritorno dell’ex presidente Manuel Zelaya in Honduras, rovesciato da un golpe» (Manzo). Gli eventi precipitarono nell’autunno del 2012, quando Hugo Chávez (1954-2013), appena confermato presidente ma sempre più provato dalla lotta contro il cancro, decise dapprima, in ottobre, di nominarlo vicepresidente, per poi, la sera dell’8 dicembre, consacrarlo pubblicamente quale suo erede politico. «Non era un arrivederci, sembrava un addio il discorso televisivo […] del presidente venezuelano. Intorno a un tavolo, nel Palazzo di Miraflores, circondato dai suoi più stretti e fedeli collaboratori, Chávez ha ammesso per la prima volta di fronte al Paese quello che ha negato e conservato nel più assoluto segreto per mesi. Il tumore […] non è stato vinto. Il presidente non è guarito nonostante tre interventi chirurgici, la chemio e la radioterapia. E ora, appena due mesi dopo la sua rielezione, la situazione è grave. Tanto grave che il presidente è rientrato da Cuba soltanto per designare un successore in diretta tv, per chiedere “con il cuore” ai suoi militanti di appoggiare un suo delfino, strozzando sul nascere le lotte intestine che potrebbero scoppiare nel movimento chavista se lui dovesse abbandonare la scena senza aver fatto testamento. Così l’ha fatto, da grande leader populista qual è, ed è tornato al Cimeq, l’ospedale dell’Avana. […] “La mia opinione ferma – ha detto –, piena, come la luna piena, irrevocabile, assoluta, è che, se io non fossi in grado di svolgere le mie funzioni e fosse necessario convocare nuove elezioni, voi dovreste eleggere Nicolás Maduro come presidente”. Mentre Chávez parlava, alla sua sinistra Maduro aveva l’aria sconvolta, quasi impaurita. A un certo punto Chávez stava addirittura per passare a Maduro la spada di Bolívar (bastone del comando in Venezuela), ma si è fermato tra gli sguardi attoniti degli altri presenti. Era troppo. Sarebbero diventate simbolicamente dimissioni in diretta e in anticipo» (Ciai). «Perché lui e non altri? Probabilmente per la sua lealtà a Chávez, che lo ha portato, tra i pochi del suo gabinetto, a essere informato puntualmente sull’evoluzione della malattia dell’amico Hugo. […] Nicolás il politico ma anche l’amico e, soprattutto, l’uomo che gestisce i cubani della security a Caracas e dintorni. Insomma, “el hombre” giusto a cui consegnare il Paese del dopo Chávez» (Manzo). Assunta ad interim la presidenza alla morte di Chávez (5 marzo 2013), alle elezioni presidenziali del successivo 14 aprile, nonostante l’autorevole investitura, Maduro prevalse di stretta misura sul riformista Henrique Capriles Radonski, ottenendo il 50,66% di consensi a fronte del 49,07% dell’avversario (con una partecipazione al voto pari al 79,68% degli aventi diritto), tra non poche denunce di brogli e contestazioni. «Nel primo discorso al Paese, Maduro è apparso incerto. La sua è una vittoria con un sapore di bocciatura che pochi si aspettavano. Secondo i primi calcoli, nelle cinque settimane che sono trascorse dalla scomparsa di Chávez il nuovo leader avrebbe “bruciato” quasi un milione di voti» (Rocco Cotroneo). Una volta proclamato presidente a tutti gli effetti, Maduro assunse immediatamente un atteggiamento autocratico, avocando a sé il potere legislativo, dapprima in formale ossequio alla costituzione vigente grazie all’acquiescenza dell’Assemblea nazionale dominata dalla sua stessa coalizione, poi, all’indomani della schiacciante sconfitta subita alle elezioni legislative del 6 dicembre 2015 (in cui la coalizione d’opposizione ottenne ben 109 seggi sui 167 totali), esautorando di fatto la nuova Assemblea nazionale in favore del Tribunale supremo di giustizia, opportunamente infiltrato dal regime, e traendo quindi da questo la legittimazione del suo potere sempre più autoritario. La crisi istituzionale si esasperò dopo che, il 21 ottobre 2016, il Consiglio nazionale elettorale (anch’esso ritenuto colluso con il regime) ebbe annullato l’indizione del referendum richiesto dall’opposizione per revocare l’elezione di Maduro: in seguito alle tensioni innescate dalle proteste parlamentari e popolari, prontamente represse, il 30 marzo 2017 il Tribunale supremo di giustizia esautorò l’Assemblea nazionale, spogliandola anche formalmente del potere legislativo per assumerlo esso stesso a tempo indeterminato, e revocando contestualmente l’immunità parlamentare. Il tentativo di colpo di Stato fallì grazie al coraggioso intervento del procuratore generale Luisa Ortega Díaz, che l’indomani denunciò sulla televisione di Stato l’incostituzionalità del provvedimento: di fronte a tale inatteso smacco, Maduro ordinò al Tribunale supremo di giustizia di rivedere la propria decisione, e il 1° aprile i poteri dell’Assemblea nazionale furono restaurati, sebbene solo formalmente. Dopo nuove proteste e almeno 29 morti, il 1° maggio 2017 il presidente annunciò la convocazione di un’Assemblea costituente incaricata di riformare la costituzione vigente, con l’evidente obiettivo di esautorare definitivamente l’Assemblea nazionale. Ne risultò una lunga sequela di esecrazioni da parte della comunità internazionale e, soprattutto, un crescendo di manifestazioni di protesta, ferocemente represse dal regime con oltre centosessanta morti, almeno quindicimila feriti e circa cinquemila arresti. Il 16 luglio 2017 si tenne un referendum, indetto dall’Assemblea nazionale e considerato illegittimo dal regime, cui parteciparono oltre 7,5 milioni di venezuelani, esprimendo con quasi il 99% dei voti la loro contrarietà all’istituzione dell’Assemblea costituente e il loro desiderio di mantenere e consolidare la costituzione vigente; ciononostante, due settimane dopo, il 30 luglio, si svolsero come previsto le elezioni dell’Assemblea costituente, che secondo i dati ufficiali avrebbero visto la partecipazione di poco più di otto milioni di elettori, pari al 41,53% degli aventi diritto (dato fortemente contestato dall’opposizione e da osservatori internazionali, che hanno invece stimato un’affluenza compresa tra l’11 e il 21 per cento). Il nuovo organismo si è quindi insediato ufficialmente il 4 agosto 2017: tra i suoi primi atti, la deposizione, deliberata l’indomani stesso, del procuratore generale Luisa Ortega Díaz, la quale fu quindi costretta ad abbandonare il Paese insieme alla famiglia per evitare arresto e ritorsioni. Ormai dittatore conclamato, Maduro, dopo aver bandito quasi tutti i suoi oppositori, è stato confermato alle elezioni presidenziali del 20 maggio 2018 con il 67,84% dei consensi, a fronte però di una partecipazione al voto ufficialmente computata in 9,4 milioni di elettori, pari ad appena il 46,07% degli aventi diritto (dato drasticamente ridotto dagli osservatori indipendenti), peraltro nell’ambito di consultazioni giudicate irregolari da quasi tutta la comunità internazionale. «Di certo c’è che, durante tutta la giornata di domenica 20 maggio, la maggior parte dei seggi sono rimasti desolatamente vuoti, mentre file enormi si creavano solo ai cosiddetti “punti rossi”, elogiati pubblicamente da Maduro e collocati a poche centinaia di metri dai punti di votazione. Qui chi mostrava il tesserino biometrico “Carnet de la Patria” otteneva in cambio del voto derrate alimentari, oltre alla promessa di un bonus pari a 10 milioni di bolivares, circa 9 euro al cambio parallelo. […] Il problema della fame, infatti, è oggi prioritario per la stragrande maggioranza dei venezuelani; secondo le statistiche Onu, vive in povertà l’87% delle persone. Un salario medio come quello di un operaio addetto alla rete elettrica è pari a 2,5 milioni di bolivares, mentre un chilo di carne costa 2 milioni di bolivares. […] La stragrande maggioranza dei venezuelani non ha dunque accolto l’invito di Maduro ad accorrere ai seggi. Un gesto politico ancor più significativo data la pressione del regime, che, oltre a minacciare gli assenteisti di tagliare loro i sussidi alimentari di Stato, ha anche tentato di intimidire col licenziamento i dipendenti pubblici» (Manzo). Sempre più impopolare in patria come all’estero, il 4 agosto, a Caracas, durante le celebrazioni dell’81° anniversario dell’istituzione della Guardia nazionale bolivariana, il presidente è scampato a un attentato condotto con l’uso di droni armati di esplosivo, rivendicato da un gruppo di militari dissidenti, cui sono seguite nuove misure repressive; secondo alcuni commentatori l’attacco sarebbe invece stato falsamente organizzato dallo stesso Maduro per giustificare un ulteriore inasprimento della dittatura. Poche settimane dopo, nel tentativo di arginare il crescente dissenso dovuto anzitutto alle disperate condizioni della popolazione, Maduro ha varato un controverso programma di riforme economiche e finanziarie. «“El paquete del hambre”, ovvero "il pacchetto della fame". Così hanno battezzato le misure economiche introdotte dal presidente Nicolás Maduro a fine agosto i 27 milioni di venezuelani che resistono in quello che sino a vent’anni fa era il Paese più ricco del Sudamerica (oltre 5 milioni sono già fuggiti), e ancor oggi possiede le maggiori riserve petrolifere certificate. Dopo avere cercato di controllare per un ventennio i prezzi di ogni bene, compresa la moneta, centrando il solo obiettivo che tali politiche storicamente centrano, ovvero un florido mercato nero, rendere introvabili beni sui mercati legali e la moneta senza valore, ora Maduro ha deciso di aumentare il prezzo del gasolio di un milione e 400 mila per cento […] e quello della benzina del 700 mila per cento, eliminando 5 zeri dal bolivar: moneta passata per decreto da "forte" a "sovrana", nella folle speranza che cambiare nome possa fermare un’inflazione annua al milione per cento (fonte Fmi). In altre parole: un pollo che, pochi giorni fa, costava 14 milioni di bolivares "forti", oggi con il nuovo conio ne vale "solo" 140. Nulla cambia, però. Soprattutto, Maduro ha moltiplicato per legge di 35 volte lo stipendio che, da settembre, i datori di lavoro del settore privato dovranno pagare ai dipendenti. "Una decisione che costringerà a chiudere le 140 mila piccole imprese sopravvissute a queste follie economiche" spiega Rafael Guzmán, presidente della commissione Finanze del Parlamento. "Stiamo parlando di panetterie, bar, parrucchieri e macellerie, non di multinazionali". Una tesi confermata dall’economista venezolano José Toro Hardy, per il quale obbligare le imprese a pagare ogni dipendente 180 milioni di bolivares (prima ne spendevano poco più di 5 milioni) porterà a fallimenti in serie: "Oltre tre milioni di lavoratori rischiano il posto". Maduro ha garantito agli ultimi imprenditori rimasti in Venezuela che sino a fine novembre sarà lo Stato a pagare gli stipendi di tutti. Il problema è che, per farlo, costringerà anche il settore privato a iscriversi al cosiddetto "carnet della patria": il bancomat con cui il regime offre cibo in cambio del voto. "Se non lo faranno, saranno espropriati. Per dicembre rimarranno quelli che si sottomettono: tutti gli altri fuggiranno all’estero" dice Julio Coco, un ex comunista che oggi lotta contro Maduro» (Manzo). «Negli ultimi mesi, mentre il Venezuela si sgretolava di fronte alla più grave crisi economica della sua storia moderna, Maduro, paradossalmente, ha visto la sua posizione rafforzarsi. L’opposizione interna al regime è lacerata dalle divisioni, troppo debole per organizzare un tentativo credibile di sconfiggere la rivoluzione bolivariana. È vero, Maduro deve anche fronteggiare l’opposizione della Chiesa locale e di ampie fasce della popolazione, ma ha saputo conquistarsi l’appoggio di chi il destino dei dittatori da sempre lo decide. L’esercito. I militari in Venezuela gestiscono le maggiori industrie militari e petrolifere e controllano le regioni più ricche di oro, diamanti e coltan. Aumentando i salari dell’esercito e guardando con occhio benevolo questa “economia ombra”, Maduro ha reso molto più profittevole per le forze armate appoggiare il regime piuttosto che tifare per un incerto ritorno alla democrazia. “Oggi i servizi di sicurezza riescono a spegnere le proteste quando queste sono ancora in fase di pianificazione”, confida al New York Times Hebert García Plaza, un ex generale venezuelano che ha lasciato il Paese dopo che il governo lo ha accusato di corruzione. Le manifestazioni di piazza sono meno frequenti e si sono gradualmente depoliticizzate: in Venezuela di questi tempi si scende in piazza per avere acqua potabile ed elettricità, visto che i blackout elettrici e le sospensioni dei servizi idrici sono ormai all’ordine del giorno, anche nella capitale. Inoltre, l’emigrazione costante che ha segnato gli ultimi anni del Venezuela potrebbe aver cambiato la demografia del Paese a vantaggio di Maduro. Tra i milioni di venezuelani che hanno lasciato il Paese per dirigersi in Colombia, Perù, Cile, Usa ed Europa, ci sono moltissimi degli oppositori del presidente. Coloro che invece non hanno partecipato a questo esodo hanno per lo più deciso di tollerarlo. In questa situazione di crisi perenne e di fragili equilibri interni Maduro ha scelto di scommettere sulla disperazione e sullo sfinimento dei suoi connazionali e sulla collusione delle alte schiere dell’esercito per assicurare la permanenza del regime. Un azzardo che per ora sta dando i suoi frutti, ma che a lungo andare potrebbe non riuscire a garantire la permanenza al potere del delfino di Chávez. Gli ultimi aumenti alle paghe dei militari, per quanto molto più consistenti di quelli degli altri lavoratori, non sono stati in grado di tenere il passo dell’inflazione, che secondo le stime del Fondo monetario internazionale raggiungerà entro fine anno il 1.000.000%. […] Russia e Cina, i due soli grandi Paesi non apertamente ostili al regime di Caracas, non sembrano, per motivi diversi, intenzionati ad accorrere in aiuto dell’alleato. La prima per mancanza di mezzi, la seconda perché scettica sui rapporti con il presidente venezuelano, che rischiano di compromettere quelli con Paesi ben più importanti dal punto di vista economico e commerciale. Dove hanno fallito i droni, potrebbe riuscire quindi il default. Quando finiranno i bolivar per pagare i generali che permettono la sopravvivenza del regime, allora la parabola di Maduro potrebbe veramente giungere alla fine» (Stefano Cabras) • Un figlio dalla prima moglie, da tempo introdotto nelle istituzioni venezuelane; tre figliastri dal primo matrimonio della sua seconda e attuale consorte, l’avvocato e politico Cilia Flores (conosciuta nel 1992 quando era impegnata nella difesa legale di Chávez), oggi membro dell’Assemblea costituente • Cresciuto con un’educazione cattolica, è stato però anche seguace del predicatore indiano Sai Baba (1926-2011) • «Hugo Chávez, che ha governato il Paese fino alla sua morte nel 2013, ha avuto la grave responsabilità di non aver sfruttato la fase del prezzo alto del petrolio per creare nel Paese le condizioni per uno sviluppo sostenibile e duraturo, ma anzi di aver creato le precondizioni per il disastro del Paese dopo il 2014 con il crollo del prezzo del petrolio. Il presidente Nicolás Maduro ha portato avanti una politica economica seguendo prevalentemente la stessa impostazione data da Chávez, anche dopo il collasso delle entrate tratte dalla risorsa petrolifera, contribuendo in modo determinante al peggioramento della situazione economica» (Antonella Mori). «I cinque anni e mezzo di potere di Maduro sono stati un disastro completo, senza alcuna possibilità di redenzione. […] Nicolás Maduro si è spinto laddove Hugo Chávez non aveva né avuto bisogno né osato, e cioè fino allo smantellamento completo della democrazia» (Cotroneo).