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 2018  novembre 22 Giovedì calendario

Storia dei labirinti

Un labirinto e un cervello si assomigliano molto. Dal di fuori, perlomeno. I giri della corteccia cerebrale ricordano le circonvoluzioni dei sentieri (o del sentiero) che disorientano chiunque sia entrato in un dedalo. Per la verità, labirinto e dedalo non sono la stessa cosa, come ci spiega subito Henry Eliot, autore di un libro affascinante e bizzarro come Segui questo filo (Il Saggiatore, pagg. 248, euro 18, illustrazioni di Quibe, traduzione di Giulia Poerio). Il primo è costituito da un solo percorso, che si dispiega su sé stesso. Il secondo ne comprende diversi, secondo combinazioni escogitate per far perdere la direzione in entrata e in uscita. La storia dei labirinti è lunga come quella della civiltà umana. Il mito di Dedalo e del Minotauro ha innervato la tradizione letteraria fino a oggi. La creatura metà uomo e metà toro, il figlio mostruoso di Minosse, è imprigionato in una caverna da cui non può uscire.

GEOLOCALIZZAZIONE
In realtà, ogni labirinto comporta una serie di scelte, cioè di diramazioni. E un esercizio di calcolo, di memoria, di geolocalizzazione. Può essere un incubo o uno spasso. O tutt’e due. Alla corte di Luigi XIV, a Versailles, era un luogo privilegiato di giochi amorosi. Eravamo nel Seicento, e la moda del dedalo si era sviluppata da non molto, due tre secoli, cioè da quando al freddo meccanicismo medievale, con un Dio che decideva tutto per l’uomo, si andava sostituendo la concezione del libero arbitrio umano e individuale: la salvezza, metaforicamente, dipendeva dalla propria capacità di trovare la direzione giusta. Se volete mettervi alla prova affrontate però quello di siepi di Hampton Court, nel Regno Unito. È un’attrazione che neanche Disneyland (per la verità a Disneyland Parigi uno ce n’è), uno dei posti più visitati d’Inghilterra, con 160mila persone che ogni anno ci entrano e spesso per uscirne, anche ammesso di aver raggiunto il centro, hanno bisogno di un aiuto esterno. Oggi coi navigatori la vita è più semplice, anche quando ci si perda in giro per il mondo, perché «tutto il mondo è un labirinto» come diceva Jorge Luis Borges, uno che se ne intendeva. Il labirinto perfetto, per paradosso, è il deserto, poiché l’alternativa è illimitata (e infatti senza bussola è facilissimo girare in tondo fino allo sfinimento). Il libro racconta diverse storie, intersecando mito, leggenda, storia e attualità. La più appassionante è forse quella di Greg Bright, che nel 1971, da giovane hippy un po’ scentrato, cominciò a scavare un dedalo a Glastonbury, e poi via via a progettarne altri fino a diventare un esperto massimo, salvo poi scomparire dal mondo e rendersi irreperibile come se al centro di quelle volute rompicapo ci fosse lui stesso.

SENZA CENTRO
Non tutti i labirinti hanno un centro preciso, però è importante che ce ne sia uno, possibilmente segnalato da qualche simbolo. A quel punto il visitatore sa di aver compiuto un viaggio. Nel farlo, si è posto dei problemi e li ha risolti. Ma adesso deve tornare indietro. A meno che non abbia il filo di Arianna, o non abbia seminato tracce come Pollicino, deve pensare da capo all’inverso. Dopodiché sarà libero. Avrà trovato sé stesso. Questo volume è strano, dicevamo sopra. Non si legge in maniera lineare. La scrittura spesso si avvolge su sé stessa, e la pagina va capovolta. Corrisponde al cammino che si percorre dentro un labirinto, svoltando di qua e di là, trasportati in base a leggi che appaiono a volte irrazionali. Come Alice in un mondo che sfida lo spazio e il tempo.