Libero, 22 novembre 2018
Rimedi per le bruttine ai tempi dell’Antica Roma
Come se la passavano le donne romane, ai tempi in cui non esistevano tutti i sussidi di cui oggi fruisce chi non ha avuto in sorte, per dirla col poeta, «l’aurea beltade»? Certo, esistevano validi aiuti anche duemila anni fa, ma i canoni di bellezza erano stringenti. Le fanciulle dovevano essere di carnagione chiara, quale segno di distinzione sociale: la tintarella era, infatt indicativa dell’essere costrette a lavorare nei campi. Ce lo prova Catullo (I sec. a. C.), che, nel carme 13, nell’invito a cena a un amico, lo esorta a portare una candida puella. E pensiamo anche all’epiteto omerico di Era, la Giunone dei latini: leukolenos, ovvero «dalle bianche braccia». Ma non solo: Omero sempre ad Era riferisce l’epiteto boopis, letteralmente «dagli occhi bovini», ossia dagli occhi grandi, languidi e scuri. Ancora, Petronio, in età neroniana, presenta nel Satyricon l’incantevole ritratto di Circe, presentata con capelli ondulati, occhi splendenti, sopracciglia lunghe e folte, naso appena arcuato, bocca delicata, bel piedino, e, ovviamente, un incarnato dalla bianchezza che supera quella, proverbiale, del marmo di Paro. Con tono più ironico, Catullo, 120 anni prima, lodava la bellezza di Lesbia, che risaltava antifrasticamente dalle caratteristiche non possedute da Ameana, salutata nel carme 43: ella non aveva un bel nasino, a differenza di Lesbia, e, per contrasto con lei, si arguisce che Lesbia aveva occhi neri e dita lunghe ed eleganti. Interessante è l’attenzione data al grazioso piedino e alla fronte non troppo alta, a differenza di quanto accadrà nel Rinascimento, quando le donne arriveranno a strapparsi i capelli per sembrare dotate di fronte spaziosa (si veda anche Orazio, Carm. 1, 33,5). I romani impazzivano per i capelli biondi, ma non amavano gli occhi chiari. Lucrezio chiude il IV libro del De rerum natura con un elenco di difetti femminili che gli innamorati, nella loro follia, valutano come pregi. E dopo la donna di carnagione scura, troviamo proprio quella dagli occhi verde-azzurri (caesia).
PRIMA DEL BISTURI
E per migliorare il proprio aspetto? I romani padroneggiavano la cosmesi, anche se gli ingredienti possono lasciarci perplessi: per esempio, per sbiancare i denti, era usato un composto a base di urina (in fondo, continene ammoniaca....), come dice Catullo, a proposito di tale Egnazio, aduso a pulirsi così i denti. Ovidio, grande cantore del fascino femminile dedica un’opera, i Medicamina faciei femineae, ovvero ?i cosmetici femminili?, all’arte del trucco, argomento solo apparentemente frivolo, perché si inserisce fra le attività che gli uomini sono costretti a svolgere una volta terminata l’Età dell’Oro, per rimediare al fatto che la natura non concede più con larghezza i suoi doni: «Ragazze, imparate l’arte di migliorare l’aspetto, il modo di proteggere la bellezza del viso. La coltivazione costrinse il suolo sterile a porgere i doni di Cerere e fece sparire i roveti spinosi, la coltivazione migliora il succo dei pomi agri, l’albero acquista con l’innesto richezze adottive. Ci piacciono le cose ben curate».
IL KAMASUTRA
La cosmesi si inserisce cioè nel rapporto dialettico fra natura e cultura, fra ingenium («dotazione naturale») e ars («artificio tecnico»), che segna tutta la cultura occidentale. Ecco la ricetta di Ovidio per una crema miracolosa per l’incarnato: «L’orzo ben netto sia due libbre, vi si mescoli un’uguale misura di ervo (un legume simile alla veccia), con dieci uova. Una volta che la mistura sarà seccata dall’aria ventilata, comanda che una lenta asinella la macini con mola durissima. Vi aggiungi le prime corna cadute a un cervo maturo, tritate benissimo (devono essere il sesto d’una libbra); passalo subito da un fitto crivello. Aggiungi dodici bulbi pelati di narciso pestati... da una mano instancabile, che pesti pure un sesto di libbra di cipolla con seme toscano: versaci nove parti di miele». Non l’abbiamo provato, ma Ovidio ci assicura che «qualsiasi donna si metta in faccia questo cosmetico, risplenderà più liscia del suo specchio medesimo». Ma, come anche oggi, a un certo punto persino il push up più tattico rivela il trucco, giacché arriva il momento in cui ci si deve mostrare per quel che si è. Niente paura: anche qui Ovidio ci soccorre, dato che il terzo libro dell’Arte di amare, dedicato alle donne, si conclude con suggerimenti per non sfigurare nell’intimità. Ci troviamo di fronte a una sorta di Kamasutra in minore, che il poeta si diverte un mondo a scrivere, anche se deve dichiararsi formalmente pieno d’imbarazzo: «Ora mi vergogno a continuare, ma mi ha intimato Venere divina (...) Cerca di conoscerti bene; usa posture secondo le tue forme: non a tutte giova lo stresso modo. E tu supina giaci, se hai bello il viso... Tu invece, cui di rughe segnò Lucina (la dea protettrice dei parti) il ventre, fai volgere il cavallo, come in fuga usano i Parti (...) Se hai bella la gamba, fa’ che così si veda (...) Non ritenere brutto e sconveniente sciogliere le chiome qual donna Tessala: sparsi i tuoi capelli, volgi la testa. Mille giochi ha Venere; ma il più semplice e meno faticoso, è giacere semisupina sul fianco destro». Anche la luce va dosata sapientemente: «Al letto poi non dare troppa luce da ogni finestra. Nel tuo corpo vi sono parti da lasciare in ombra». Insomma, mancava solo Photoshop.