il Fatto Quotidiano, 22 novembre 2018
Intervista a Verdone, a 40 anni dal suo debutto
Un palco, uno spettacolo da mettere in scena, un fratello in difficoltà (tre della compagnia ammalati, come racconta nella prefazione della pagina accanto); una mamma che ti sprona, una vocina interna che dice “vai, è il momento”; sempre quella vocina che insiste e ti sobilla verso “una (presunta) botta di follia”. E puff, scatta la magia, e Roma, e l’Italia scoprono per la prima volta Carlo Verdone: “Ancora oggi non so perché l’ho fatto: un grande azzardo; e io un po’ megalomane”.
Seduto su un divano accavalla le gambe, socchiude gli occhi, guarda a ieri non da arrivato, (“in questo mestiere non te lo puoi permettere”), ma da uomo realmente e piacevolmente stupito; da mesi poi lavora alla sceneggiatura del suo prossimo film.
Per fortuna è salito su quel palco.
E ho capito di avere un potenziale del quale ero ignaro; è stato un momento di euforia.
Concluso tra gli applausi.
Andò tremendamente bene. Da quella sera è partita la mia carriera. Papà non voleva.
Come mai?
Conosceva bene la realtà del cinema, le difficoltà per intraprendere e restare in questo mondo: per lui era un mestiere complicato, pericoloso, pieno di fragilità. Diceva: “O sei da primo in classifica, o meglio lasciar perdere. E non so se puoi riuscirci. Studia e pensa a un posto sicuro”.
Sua madre?
L’opposto: “Carlè, tu hai un occhio particolare su ciò che ti circonda. È una dote”. Però a quel tempo la laurea aveva un valore spendibile…
Suo padre così addentro al cinema?
Sì. Allora gli attori che duravano, e potevano vivere di questo mestiere, erano pochi: Gassman, Sordi, Manfredi, Tognazzi e Mastroianni.
I fantastici cinque.
Per gli altri arrivavano i dolori, depressi, oppressi dall’ansia e dalla smania per una parte; cercavano mio padre, chiamavano a casa: “Tu che conosci Fellini, puoi parlarci?”.
Raccomandazioni…
E non mi riferisco a professionisti di basso livello, ma a grandi come Leopoldo Trieste. Per questo mio padre non era convinto, conscio delle mie fragilità, della mia timidezza davanti alla folla.
La proteggeva.
Allo stesso tempo mi consigliava i film da vedere, mi regalava le tessere dei cineclub, i libri di Maupassant, Cechov, Gogol, Verga, Deledda… tutta la letteratura di fine Ottocento, primi del Novecento. È stato eccezionale.
Per alcuni scrittori non sono necessari i classici.
È un’enorme stronzata: sapete chi è il maggiore esponente della commedia all’italiana? Carlo Goldoni. Se riprendete le sue opere scoprirete i segreti dei grandi autori.
Dal passato non si prescinde.
È fondamentale per capire i vari Monicelli, Age e Scarpelli; i capolavori come Metropolis e 2001 Odissea nello spazio sono anche oggi attuali perché nascono da qualcosa di profondo e meditato. Sono immutati.
In “Gallo Cedrone” parla della “modernità di Dante”.
Quella è una gag nata in un pranzo di lavoro con Claudia Gerini: eravamo in un locale periferico di Roma per discutere di Sono pazzo di Iris Blond; accanto a noi si siede una coppia, sicuro al primo appuntamento, lei in minigonna, lui un cafone quarantenne che per darsi un tono si lancia in una sperticata lezione di vita: “A lettura è tutto, a casa ho una collezione de libri disumana, e la modernità di Dante te apre un mondo…”. La Gerini mi fissa e sferra un calcio sotto il tavolo; mi fermo e penso: “Prima o poi questa battuta la metto in un film”.
Da qualche giorno è Grande Ufficiale della Repubblica Italiana…
Un grande onore, e mi ha colpito il discorso del Prefetto quando ha definito il mio percorso come un’indagine sull’evoluzione dei caratteri, dei tic, delle nevrosi della nostra società.
Un po’ quello che le riconosceva sua madre.
(Ci pensa) Ho sposato il mio lavoro, anche a costo di mettere da parte altri aspetti della vita come le amicizie: quello della scrittura prima, della regia e recitazione poi, sono un impegno perenne, ho la testa sempre lì.
Ha ancora dubbi su cosa ha realizzato Carlo Verdone?
Quelli sono all’ordine del giorno; sa quanti soggetti ho scritto per il prossimo film? Cinque. Però così mantengo sempre l’idea di ricominciare da capo, come se fossi al mio secondo lungometraggio.
E quando esce un film?
Sono giorni terribili: mi domando se piacerà, su come il pubblico uscirà dalla sala, in quanti andranno.
Oggi è più difficile trovare i personaggi per strada.
Hanno tutti il cellulare in mano, i discorsi sono a brandelli, non si ascoltano le risposte, e forse perché nessuno si guarda più neanche negli occhi.