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 2018  novembre 22 Giovedì calendario

Strorie di incidenti diplomatici nel mondo della moda

Un abito di scena con dei girasoli applicati e un biscotto dalla forma di samurai sono bastati a impedire alla cantante Katy Perry e alla supermodel Gigi Hadid di partecipare allo show di Victoria’s Secret previsto a Shanghai. L’anno scorso le due si videro negare il visto poco prima della partenza e anche se nessuna motivazione ufficiale fu mai rilasciata dalle autorità cinesi, il bando fu deciso a causa di scelte e atteggiamenti giudicati poco rispettosi del governo di Pechino: nei girasoli di Katy Perry, indossati a Taiwan, era stato infatti colto un richiamo al “movimento dei girasoli”, protesta condotta da 300 studenti taiwanesi contro Pechino; e di Gigi Hadid non era piaciuta l’imitazione ironica dei tratti orientali davanti a un biscotto in un video postato sui social.
Si tratta di uno dei casi più recenti di incidenti diplomatici che coinvolgono la moda, di cui il più dirompente risale al 2011: a Parigi, una sera di febbraio, John Galliano insultò con una valanga di frasi antisemite una coppia in un bar del Marais, il tutto documentato da un video in cui l’allora designer di Dior, visibilmente ubriaco, si esprimeva con frasi come «io amo Hitler». L’indignazione fu tale che la maison di Avenue Montaigne lo licenziò in tronco pochi giorni dopo, dopo ben 15 anni di prolifica collaborazione. E tre anni di oblio, riabilitazione e pubbliche scuse sono occorsi a Galliano per potersi riaffacciare in passerella, grazie a Renzo Rosso che nel 2014 lo chiamò alla guida di Maison Margiela, marchio controllato dal suo gruppo Otb.
Anche Karl Lagerfeld l’anno scorso fu criticato per aver riportato una frase dagli echi antisemiti durante un talk show francese: contestando la politica di apertura all’immigrazione della canceliera Angela Merkel, disse «conosco qualcuno in Germania che ha preso con sé un giovane siriano e dopo quattro giorni ha detto: la migliore invenzione della Germania è stata l’Olocausto». E sulla tragedia degli ebrei cadde anche Zara, quando inserì nella collezione 2014 una maglia per bambini a righe con una stella a sei punte gialla ricamata sul petto: sui social rimbombarono le proteste di chi vi riconosceva la divisa dei campi di concentramento nazisti, e il marchio del gruppo Inditex, anche se rispose che l’ispirazione veniva dal Far West, ritirò la maglia dagli scaffali. 
Negli anni scorsi, Valentino e Stella McCartney sono stati entrambi contestati per “appropriazione culturale”: due collezioni ispirate all’Africa (la PE 2016 della maison romana, la PE 2018 della designer britannica) sono state criticate per non essere state presentate da un numero sufficiente di modelle di colore. Jeremy Scott di Moschino, invece, lo scorso giugno si è difeso dall’accusa, mossa dai social, di sostenere la politica anti-migranti di Donald Trump con la sua campagna “Illegal Aliens”. La sua intenzione, ribadì subito dopo con un post, era invece quella di criticarla. 
Chiara Beghelli