Corriere della Sera, 22 novembre 2018
La maggioranza occupa la televisione
È giusto che Matteo Salvini abbia sulle tivù principali sette volte più spazio di Maurizio Martina o che il solo Luigi Di Maio possa parlare quanto Silvio Berlusconi, Giorgia Meloni, Antonio Tajani, Giovanni Toti e Renato Brunetta insieme?
Con un risultato complessivo che vede gli esponenti gialloverdi arrivare al 64% contro il 36% del totale delle opposizioni di destra e di sinistra?
Chi la fa l’aspetti, diranno i vincenti di oggi ricordando la superbia con cui i vincenti di ieri irridevano ai lamenti spesso giusti o addirittura sacrosanti di chi denunciava il peso abnorme esercitato sui mass media da chi allora aveva in pugno il potere. Basti tornare alle polemiche contro Matteo Renzi nei mesi precedenti alle Europee 2014 quando Beppe Grillo paragonò la presenza del premier Pd alla cortigianeria ruffiana nei dintorni di Kim Jong-un. O alla lagna del febbraio 2016 dell’insaziabile Michele Anzaldi, il più bulgaro dei bulgari piddini, contro Bianca Berlinguer rea d’insistere a «fare sfacciatamente una sorta di “panino”, dove mette insieme governo e opposizione, senza dare voce alla maggioranza. Una distorsione inaccettabile!»
Per non dire degli strali lanciati per anni contro lo strapotere di Silvio Berlusconi. Come nel 2010 quando Giuseppe Zaccaria, già presidente Rai, denunciò numeri «raccapriccianti»: «Berlusconi: 768 secondi di tempo di parola e 602 di notizia; Bersani 119 secondi di tempo di parola e 155 secondi tempo di notizia; Fini 35 secondi tempo di parola e 97 secondi tempo di notizia (riunione di partito); Casini 0 secondi di parola e 17 di notizia; Vendola 49 di parola e 52 di notizia; Bossi 13 secondi di parola e 186 di notizia. La maggioranza ha collezionato su tutte le emittenti televisive nazionali nella giornata di ieri il 70% contro il 30% per l’opposizione. Sempre così».
Ma come: non era stato lui, quand’era ai vertici di Viale Mazzini, a teorizzare la «regola alla Rai dei due terzi: un terzo al governo, un terzo alla maggioranza, un terzo all’opposizione»? «Sì, ma nel periodo ordinario e non certo, come qualcuno distrattamente sostiene, in campagna elettorale». Tesi comunque contestata nei tempi d’opposizione dalla stessa sinistra, come il giorno in cui Pietro Fassino sbuffò: «Governo e centrodestra non sono due cose distinte: così il centrodestra parla due volte e noi una sola».
Il punto è che ognuno, sul tema, si regola a seconda di dove sta. A Palazzo Chigi o fuori. «Ah D’Alè, mo te do ‘a lista de quelli che arrivano da te a ditte che so’ sempre stati de sinistra», ammiccò Francesco Storace a Massimo D’Alema dopo la vittoria dell’Ulivo nel ‘96, «So’ gli stessi nomi de quelli che arrivarono da me ner ’94 a dimme che erano sempre stati de destra».
La tesi dei «tre terzi», questo è certo, è stata sempre contestata dai grillini. Su tutti da Roberto Fico che da presidente della Commissione di Vigilanza Rai firmò un esposto alla fine del 2014 all’allora a capo dell’azienda radiotelevisiva Anna Maria Tarantola: «Come va considerato il tempo destinato a Renzi nella tv pubblica? Parla in qualità di capo del governo o come segretario di un partito che partecipa alle elezioni europee e amministrative?».
Sei mesi dopo rincarava prendendosela con tutti i tiggì, non solo della Rai ma pure di Mediaset («totalmente schiacciati su Forza Italia») o di Sky «sbilanciati a vantaggio del blocco governo-maggioranza, che insieme raggiungono una percentuale molto alta». Certo, riconosceva: «È vero che il governo è un’istituzione, ma è anche un attore in campo». Quindi? Meglio «un modello come quello francese» dove «a governo e maggioranza assieme non può essere concesso più del 55%» degli spazi televisivi.
Prendiamo nota: «non più del 55%». Il panorama qui illustrato da Mediamonitor.it, una società specializzata in «monitoraggio e misurazione quali-quantitativa» dei contenuti radiotelevisivi nazionali e locali indagati grazie a tecnologie e soluzioni sviluppate da Cedat 85, dice che neppure il «governo del cambiamento» è però riuscito a sottrarsi alla tentazione di avere di più.
L’analisi della settimana dal 9 al 15 novembre sui tg e i talk show di Rai 1, Rai 2, Rai 3, Rete 4, Canale 5, Italia 1, La7 e SkyTg24 (tre edizioni: 8; 14; 20) mostra che non solo i politici giallo-verdi schiacciano le opposizioni di destra e sinistra parlando complessivamente per 25.970 minuti su 40.542, pari al 64% contro 36%. Ma che esistono differenze vistose rispetto agli equilibri di governo. Matteo Salvini, per cominciare, pur avendo avuto la Lega alla Camera poco più della metà dei voti e dei seggi raccolti dal M5S, sulle presenze tivu rifila a Luigi Di Maio un distacco netto, crudele, di tre punti. Che potrebbero poi pesare nei rapporti, già conflittuali, tra i due galli del pollaio grillo-padano.
Più ancora, tuttavia, spiccano i distacchi inferti dai due «consoli» all’uomo scelto mesi fa come premier. Per carità, quella presa in esame sarà anche stata una settimana particolare e il dato va preso con le pinze… Colpisce però come Giuseppe Conte col 2,6% dei «minuti parlati» davanti alle telecamere stia appena sopra Giovanni Tria e molto sotto non solo ai due veri leader del governo ma perfino ad Alfonso Bonafede. Dirà che il suo ruolo non è apparire. Giusto. Ma in tempi populisti in cui è così importante «esserci»…