la Repubblica, 21 novembre 2018
Come girano i soldi dello sport (la guerra Giorgetti-Malagò)
Il peso dei contributi nei bilanci delle federazioni Il solo tenersi in vita costa alle 44 federazioni italiane qualcosa come 170 milioni all’anno. Centodieci sono soldi pubblici. Ieri il Coni ha distribuito allo sport i 145 milioni che serviranno nel 2019 a pagare trasferte, preparazione olimpica, allenamenti, attrezzature, ma la torta dei contributi è più ampia. La spesa annuale dello Stato per lo sport italiano è di circa 250 milioni. E poco meno della metà servono per il funzionamento delle federazioni: stipendi, commissioni federali, spese telefoniche, affitti. Insomma, la benzina per la” macchina” amministrativa la paga lo Stato. È una partita di giro regolata principalmente da un documento di undici anni fa: nel 2007 il Coni formulò l’organigramma della forza lavoro necessaria a ogni federazione, sulla base di studi tecnici. Di fatto stabilì quanti dipendenti dovesse avere ogni federazione e di che grado. Le buste paga le fa spesso il Coni stesso e quei soldi sono “immobilizzati”. Non possono quindi avere altre destinazioni, così se un dipendente va in pensione le federazioni lo sostituiscono: a prescindere dalle necessità, inevitabilmente mutate nel corso di questi 11 anni. Ma il costo del lavoro non è uguale per tutti: se Ginnastica o Hockey pagano in media ogni dipendente 54.500 euro lordi, lavorare alla FederGolf o alla Fidal ne garantisce più di 90mila. Sono le voci su cui s’è irritato il governo gialloverde, che ha deciso di intervenire con la riforma: sarà lo Stato a occuparsi della gestione dei fondi, che ora Malagò è pronto a «condividere», dopo il muro contro muro dei giorni scorsi. A preoccuparsi della riforma sono soprattutto le piccole federazioni: in 25 – più della metà del totale – dipendono per almeno il 60% dei ricavi (o giù di lì) dai contributi erogati dal Coni. In 9 addirittura tra il 75 e il 90%. Di fatto, senza quei soldi queste federazioni scomparirebbero senza appello. Anche perché le entrate alternative scarseggiano: la Motonautica ( cui va il record della dipendenza dai soldi pubblici: 90,7% delle entrate), il Badminton o il Baseball incamerano zero euro dalle manifestazioni sportive. Unica fonte alternativa di ricavi sono le quote degli associati. Insomma: gli sportivi stessi. La Ginnastica incassa quasi 4 milioni di euro da tesserate e tesserati. Le Bocce più di 2,5, a cui vanno aggiunti gli altri 2 che arrivano dalle strutture territoriali. Le stesse in cui i dirigenti sono spesso volontari che dallo sport non incassano che rimborsi spese. In Trentino, 42 federazioni sono riunite nello stesso stabile: i soldi pubblici restano tutti o quasi nella struttura centrale. Se in qualche caso chiudono in attivo il bilancio, investono quei soldi ( pubblici) in bot. La legge Melandri del ’99 glielo permette. Sette discipline non arrivano nemmeno a contare diecimila atleti che le praticano: il pentathlon non supera i 3.465 tesserati ( dati 2016). Ne risentono le sponsorizzazioni. Basti pensare che i 900mila euro di pubblicità che una federazione nobile come il Ciclismo riesce a incassare non rappresentano che il 5% delle entrate. Figurarsi lo Squash. C’è chi di questi problemi non ne ha. Le federazioni degli sport più popolari sono anche le più indipendenti: il Rugby dal Coni riceve l’11% dei ricavi, e parte del costo amministrativo lo paga da sé. Sulla parte pubblicistica (per tutte) vigila invece il Coni: tra poco, con la riforma, dovrà farlo una società per azioni.