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 2018  novembre 21 Mercoledì calendario

Altra intervista a Francesco De Gregori

Sulla targhetta dell’ascensore c’è scritto “Ditta Zimmerman“. “È il motivo per cui ho comprato la casa”, scherza De Gregori. In soggiorno, tra i dischi di Dylan, troneggia un pianoforte. “Ne sento il richiamo. Mi dice: ‘perché non ti siedi e componi?’. Ma io non sto mai con le mani in mano”, giura Francesco.
La fa sentire più in colpa il piano, la chitarra o il taccuino?
Il taccuino mi crea più responsabilità. Vivo di parole, pur sapendo che l’anima di una canzone è nella musica. Le mie nascono sulla pagina. Da una mezza frase, una scheggia, un tema che mi intriga.
Ha mai provato noia per qualche suo capolavoro?
Ci litigo, poi ci faccio pace. Per anni non riuscii a cantare La leva calcistica. Alla fine la ritrovai dentro di me.
Per ora, nessuna nuova creazione. Ha altro da fare.
Nel 2019 ho in agenda due operazioni live di segno opposto. La prima riguarda Roma. Dal 28 febbraio al 27 marzo sarò al Teatro Garbatella, 230 posti, cinque concerti a settimana. Ogni sera una scaletta con sorprese. Certo, proporrò le canzoni che il pubblico vuole sentire: Generale, La donna cannone, Buonanotte fiorellino, ma non tutte le sere le stesse. E giocherò con i brani meno eseguiti. Inventeremo arrangiamenti ruspanti. La serie di concerti si chiama Off the record: saremo confidenziali.
Una ‘residenza’ che ricorda quella di Springsteen a Broadway.
Ma il Boss propone ogni sera lo stesso repertorio: gli serve per fare storytelling. Io parlerò poco, preferisco suonare quattro canzoni in più che non spiegare come siano nate. Lo troverei banale. Il mio progetto è figlio dei set estemporanei che nascevano sulla pedanina del Folkstudio.
Come quando lei eseguiva una parodistica ‘La cacca di Piero’. E una sera lì al Folkstudio si presentò De André.
Colpa di quello stronzo, lo dico con affetto, di mio fratello Luigi. Che fomentò il suo amico Fabrizio. Io non lo avevo mai incontrato. Nicchiai. Fu proprio De André a esortarmi: ‘Dai, belin, faccela sentire’. D’altra parte, anche lui aveva confezionato una versione comica della Canzone di Marinella, molto più censurabile.
Lì nacque la vostra frequentazione. Ma in Sardegna come lavoravate, con i bioritmi incompatibili?
Fabrizio si svegliava alle nove di sera dopo aver poltrito tutto il giorno. Ci confrontavamo fino a mezzanotte, dopodiché ognuno di noi lasciava sul tavolo gli appunti che l’altro avrebbe sviluppato. In dieci giorni le canzoni erano fatte.
Torniamo a ‘Off the record’…
È anche figlio del tour del ’74 al Teatro dei Satiri. Cento posti in sala. Io, Venditti e Cocciante dovevamo fare tre repliche, restammo venti sere. Antonello si beccò una denuncia per A Cristo. Bellissima, l’abbiamo rieseguita insieme un mese fa.
E l’altro progetto per il 2019?
Una tournée estiva con un’orchestra e gli Gnu Quartet. L’ho battezzata Greatest Hits. Debutteremo a Roma, l’11 giugno a Caracalla. L’orchestra ci seguirà in giro, potremmo andare in torpedone come Glenn Miller! E non avrà una funzione decorativa. Un test già fatto due anni fa nei concerti pro-Marche con Neri Marcorè. E alla fine ne trarremo un disco con il materiale rielaborato in studio.
Il primo dicembre la vedremo su Rai3 nel documentario di Daniele Barraco, ‘Vero dal vivo’.
Non è un film musicale, ma di dettagli. Vi si vede un artigiano che con autoironia svela qualcosa di sé mentre si confronta con i musicisti, lungo le strade del mondo. Il tour di fine 2017, da Londra a New York a Parigi.
Bataclan incluso.
Andai senza enfasi. Il mandato di noi artisti era far vibrare di musica quel luogo. Il pubblico non si aspettava da me omaggi alle vittime. La gente era tornata al Bataclan subito dopo l’attentato, così come passeggia sul lungomare di Nizza.
Nel film la si vede senza la sua iconica barba.
Che ha di così importante la mia barba? Me l’ero tagliata d’estate in Grecia, per non far entrare l’acqua nella maschera da sub. Me ne frego della mia immagine, non sono Lady Gaga. Voi giornalisti avete riempito pagine sui capelli di Ligabue.
Si è avventurato nel napoletano in ‘Anema e Core’, in duetto con sua moglie Francesca Gobbi.
Prima o poi un artista cede alla tentazione di cantare nella lingua napoletana. E se non sei nato al Rione Sanità dovrai avvicinartici umilmente. Oggi la canto meglio di quando la incidemmo. Anema e Core ti avviluppa con la drammaticità di un rapporto irrisolto. L’idea mi venne la sera del compleanno di Chicca, in un ristorante di Napoli. Volevo dedicargliela. Il posteggiatore non arrivò, la canticchiai io. Lei mi venne dietro, il cortocircuito umano-artistico si è innescato lì. Chicca aveva cantato con me al Palasport di Roma negli anni Ottanta, ed è nella Corale di Giovanna Marini.
Ne avete tratto un singolo.
In due versioni in vinile: una è un 45 giri in grande formato. L’altro, in edizione limitata di 99 copie, è impreziosito da una xilografia di Mimmo Paladino. Costa 1.200 euro, non è un’operazione furba, ma per amore dell’arte. Registrammo il pezzo ai Bath Studios di Peter Gabriel. Lui purtroppo non c’era.
Parlando di amici, come si spiega quel giorno del ’75 quando lei e Baglioni vi metteste a suonare davanti al Pantheon e…
… e nessuno ci filò. Eppure eravamo famosi. Baglioni, mentendo, dice che ci restai più male di lui perché il mio ego è più grande del suo: è il contrario. Scherzo, eh!.