La Stampa, 21 novembre 2018
Tutto Banksy minuto per minuto
Metti la rivoluzione in mostra, la provocazione in una cornice, Banksy sotto vetro, esposto alla luce artificiale: la protesta cambia sfumatura, lo sberleffo perde forza e la curiosità aumenta.
Effetti collaterali della street art stravolta dal mercato e prima volta in un museo pubblico per l’inafferrabile Banksy che non ha faccia ma ha una firma così evidente da non aver bisogno di altra identità. Da oggi lo si può vedere al Mudec di Milano, ai raggi x, tutto Banksy minuto per minuto in A visual protest, titolo evidente per una mostra che si dichiara orgogliosamente didascalica e non autorizzata.
Non è appropriazione indebita, l’artista rifiuta da sempre di farsi incastrare in un sistema, ricorda costantemente che lui non chiede biglietti, invita a maltrattare le sue opere. Ne ha anche tagliuzzata una e ancora ci si chiede se lui fosse d’accordo con la casa d’aste oppure no. L’unica certezza è che il valore della Ragazza con il palloncino è aumentato quando l’opera pagata 1,3 milioni di dollari si è trasformata in stelle filanti. A Parigi il bimbetto di Kill mom? che gioca con dadi grondanti terrore è stato battuto a 591.800 dollari, il doppio della stima. Banksy prescinde dalla volontà di Banksy e lui può solo negare ogni consenso e rilanciare ogni gioco mentre il pubblico interessato diventa più numeroso. Come i collezionisti di graffiti.
Pacchetto già scartato
Quando il writer ha scoperto che a Mosca si erano inventati una grande esposizione su di lui ha detto: «Non sono la persona giusta per prendermela con chi si appropria di un’immagine». Oggi apre un altro show che lo riguarda e quasi ci si aspetta che lui partecipi in qualche strambo modo, con un ironico disegno di risposta, una frase, uno scempio, uno scherzo. Dentro il museo ci sono le opere che lo hanno reso famoso ma non c’è lui perché un trucco continua a riuscirgli: la sua arte può essere messa in mostra, essere apprezzata, ammirata, raccontare un’epoca, strappare sorrisi, moltiplicare interesse ma non resta uguale. Non importa quanta passione, attenzione, rispetto ci può essere nell’allestimento.
La ragazza con il palloncino è diventata altro e il tritacarte non era un effetto speciale, piuttosto un avvertimento, una sorta di «Non avrete altro Banksy all’infuori di me». Visto su un muro, sopra una vetrina, all’aria, ha un impatto: ti ferma, ti sposta, ti fa arretrare, modifica quel che gli sta intorno. Visto in un percorso guidato affascina senza colpire, può piacere però resta un messaggio senza intenzione, un’emozione di seconda mano, un pacchetto già scartato. Dentro, sì, c’è il suo stile: la storia di un ragazzo cresciuto con il punk probabilmente a Bristol, uno che ha fatto uscire dai vicoli la «guerilla art», uno che la sa tenere viva e riesce insieme a rifiutare e godere la fama, abbinamento decisamente inedito.
Non è il primo che respinge l’ipotesi di essere venduto, all’inizio anche i dada la pensavano così, poi hanno cambiato idea. Non è il primo che fa scomparire un’opera, Rauschenberg ha cancellato un de Kooning e poi lo ha esposto, non è il primo che piglia in giro la Regina Elisabetta, ci avevano già pensato i Sex Pistols, non è il primo graffitaro che ha così tanta fortuna, era già passato Keith Haring, ma è l’unico che scappa dentro un museo e ci resta solo se non è inviato. Si sottrae e non tanto perché dice di non volerci stare, proprio perché sfugge al controllo. Ciò che viene spostato si trasforma e distinguere tra l’arte e il poster diventa quasi impossibile anche se al Mudec ci sono stanze che sembrano strade e le didascalie ricordano i post-it gialli. Richiamano la precarietà, non la libertà della satira, non l’urgenza dello sfregio, non l’Avvelenata di Guccini o il furore di Iggy Pop, voce narrante del film L’uomo che rubò Banksy, al cinema l’11 e il 12 dicembre. Banksy è un’industria e resta un’idea. La descrizione di un successo.