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 2018  novembre 21 Mercoledì calendario

La parabola della nuova Colombia

In Cent’anni di solitudine, l’opera di fama mondiale che gli valse il premio Nobel per la Letteratura, Gabriel García Márquez chiude il racconto affermando che «le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non avevano una seconda opportunità sulla terra». Pentito forse di tanto pessimismo, alla fine del suo discorso di accettazione del premio, a Stoccolma, rivendicò con emozione «una nuova e radicale utopia della vita», che offra «finalmente e per sempre una seconda opportunità». L’incarnazione di questa utopia sembra ora possibile nella patria dell’autore, la Colombia, adesso che il Paese si apre al futuro dopo gli accordi di pace con i guerriglieri firmati dal presidente uscente Juan Manuel Santos. Ma il subcontinente americano rimane un territorio di paradossi e contraddizioni.
La prima in assoluto è che le elezioni dello scorso giugno le abbia vinte l’esponente della formazione politica che più duramente ha criticato quegli accordi. Il successore di Santos, Iván Duque, ha trionfato grazie alla sponsorizzazione dell’ex presidente Alvaro Uribe, che incarna l’alternativa più a destra dell’arco politico colombiano. Ha vinto il secondo turno delle elezioni contro il leader della sinistra, un ex guerrigliero inevitabilmente contaminato dalla retorica populista, in un Paese polarizzato sulle conseguenze della cosiddetta giustizia di transizione che permette ai guerriglieri di partecipare alla vita politica.
Sessant’anni di guerra civile
Duque sta facendo uno sforzo meritorio per allontanarsi dall’«uribismo» e porre il suo governo al centro dello schieramento. Il suo difficile compito è quello di iniziare a ricostruire un Paese che ha sofferto sessant’anni di sanguinosa guerra civile, con milioni di sfollati, ottantamila dispersi e decine di migliaia di vittime. Un periodo nel quale praticamente metà del territorio è sfuggito al controllo dello Stato che, tuttavia, è stato in grado di resistere a decenni di violenze e corruzione, assediato dalla guerriglia politica e dal crimine organizzato del traffico di droga, che hanno finito per associarsi.
È ammirevole che, nonostante tutto, le istituzioni colombiane siano state in grado di mantenere in quei decenni una certa stabilità politica e che finalmente la democrazia ne emerga rafforzata. Rafforzata sì, ma grazie a un patto: perché la guerra non si è conclusa con una vittoria, ma con accordi di pace la cui attuazione non sarà facile. Santos con la sua firma ha ottenuto un notevole successo, che gli è valso il Nobel assegnato dal Parlamento norvegese, il suo miglior contributo per la continuità del processo è stato il programma di restituzione delle terre ai contadini sfollati. Duque ora si trova ad affrontare l’aumento della criminalità dovuto agli uomini costretti a deporre le armi ma che non conoscono altro mestiere che il loro uso, e la riluttanza a smobilitare di parte delle residue forze dell’Esercito di Liberazione Nazionale.
Corruzione e migranti 
In un contesto economico di stabilità e crescita, le sfide della nuova Colombia sono soprattutto la lotta alla corruzione, alla povertà e alla disuguaglianza sociale. Marta Lucia Ramirez, la prima donna eletta alla vicepresidenza nella storia del Paese, ha anche pubblicamente insistito sulla necessità di rafforzare le istituzioni democratiche per riconquistare la fiducia perduta dei cittadini «che non si sentono rappresentati». Ma la principale minaccia che il suo governo sta affrontando sono le conseguenze del massiccio afflusso di rifugiati dal Venezuela. Dei tre milioni di emigranti che, secondo i dati delle Nazioni Unite, hanno lasciato quel Paese negli ultimi dodici mesi, almeno la metà è entrata in Colombia. 
Le autorità e i cittadini colombiani si sforzano di andare incontro ai bisogni di coloro che fuggono dalla catastrofe umanitaria di una delle nazioni più ricche della regione. L’instabilità e l’insicurezza del confine sono considerate la principale minaccia all’attuazione degli accordi di pace da parte del governo di Bogotà.
Il Venezuela, insieme a Cuba e al Nicaragua, continua a essere fattore di enorme disturbo nella politica latinoamericana. Anche se il presidente Duque recentemente a Parigi ha chiesto che venga esercitata una pressione internazionale su Maduro perché si aprano delle trattative sul futuro del Paese, la debolezza della stessa opposizione venezuelana e gli eccessi del presidente, definito da Felipe González un «tiranno arbitrario», insieme ai dubbi di molti Stati sull’opportunità di comminare delle sanzioni, non permettono di vedere una via d’uscita dalla situazione.
Ex combattenti da integrare
Delle sei maggiori economie dell’America Latina tutte, ad eccezione del Messico, negli ultimi anni e mesi si sono orientate verso governi conservatori a favore di politiche neoliberiste. L’unicità di Ivan Duque è che, mentre la maggior parte dei suoi colleghi si trovano di fronte alla violenza su larga scala e al crimine organizzato, lui deve farsi carico del processo inverso: come integrare gli ex combattenti, capaci solo di usare le armi, e come farlo senza che le vittime dei loro crimini si sentano umiliate e defraudate. Tutto questo con un’opinione pubblica ormai molto polarizzata, come ovunque, e mobilitazioni popolari e studentesche che a malapena gli hanno regalato i cento giorni di luna di miele con l’elettorato a cui aspira ogni neo eletto. Non sarà facile.
(Traduzione di Carla Reschia)