Il Messaggero, 20 novembre 2018
La finta guerra sui rifiuti
La firma a Caserta del protocollo per la Terra dei Fuochi tra sette ministri e Regione Campania è in realtà poco più di quanto un governo nazionale avrebbe dovuto fare da anni e anni, compreso l’utilizzo dell’esercito per sorvegliare le discariche. Anche perché su questo ha ragione il presidente campano De Luca: l’emergenza incendi di migliaia di tonnellate di rifiuti tossici in Campania ormai appartiene a un doloroso passato d’impotenza pubblica. È al Nord, semmai, che negli ultimi anni le ecomafie appiccano incendi agli impianti di trattazione.
È sul punto di fondo dello scontro tra Lega e Cinque Stelle, invece, che vale la pena di soffermarsi. Perché il sì o il no agli inceneritori, a guardar bene appare come una grande astuzia condivisa: è come se Lega e Cinque Stelle coprissero in nome dei contrapposti slogan a vantaggio comunque della maggioranza di governo l’intero fronte della contesa in materia di rifiuti.
Da una parte il Nord dove si concentra la maggioranza dei termovalorizzatori in Italia, dall’altra il no ideologico a un tipo d’impianto che, anno dopo anno, nei Paesi più moderni con l’utilizzo di tecnologie sempre più avanzate ha visto sempre migliorare le proprie performance di abbattimento del rischio ambientale, producendo solo emissioni di vapore acqueo, teleriscaldamento e acqua calda.
Di Maio ha presentato il no ai termovalorizzatori come un no al vintage, ma di vintage c’è solo la sua battuta, perché mostra di ignorare cosa siano oggi gli incineratori cui Paesi come Svezia, Belgio, Olanda e Danimarca destinano oltre il 50% dei propri rifiuti urbani, mentre noi solo a poco a poco stentiamo a superare la quota del 20% degli oltre 30 milioni di tonnellate annue che produciamo. Del resto è un pregiudizio ignaro anche degli analoghi successi che le tecniche di abbattimento hanno registrato negli ultimi dieci anni in impianti come i cementifici, le raffinerie, le acciaierie e le stesse centrali di nuova generazione alimentate a carbone diverso dalla lignite: tutti impianti a cui si dice no in nome di un rifiuto generalizzato a ciò che serve e continuerà servire a un Paese manifatturiero, ma insieme capace di investire in tutela dell’ambiente, salute e sicurezza.
Come abbiamo più volte ricordato su queste colonne, il problema storico dei rifiuti nel nostro Paese sono state le resistenze a realizzare davvero gli impianti che in molte parti d’Italia continuano a mancare per chiudere il ciclo del trattamento, cioè per evitare danni ambientali e insieme guadagnarci economicamente, invece di lasciarlo fare ad altri. Sui processi tecnologici e i rischi per trattare tutti i diversi segmenti di materiali che confluiscono nei rifiuti urbani, i pregiudizi hanno alimentato da una parte il miglior terreno per continuare a usare disastrose discariche senza rifiuti pretrattati, al fine di diminuirne la frazione umida e renderli biologicamente stabili, discariche che si sono rivelate bombe a cielo aperto e per le falde freatiche. Dall’altra, è così che si è finito per creare spazio per le ecomafie (che insistono però soprattutto sui rifiuti industriali, materia sulla quale storicamente le colpe pregresse del Nord sono rilevanti, tanto per ricordare che nessuno è immune da responsabilità).
Storicamente, i termovalorizzatori sono serviti eccome nei Paesi europei che hanno sostanzialmente azzerato o quasi il trattamento in discarica, e si sono affiancati all’innalzamento progressivo dei diversi impianti collegati all’economia circolare del riciclo, consentito dalla raccolta differenziata die diversi materiali che confluiscono nei rifiuti.
A questo proposito, ricordiamo che l’obiettivo per fine 2012 fissato nel 2006 di giungere a un 65% nazionale di raccolta differenziata si è rivelato del tutto illusorio: siamo ancora molti punti sotto, con il Nord giunto al 64%%, il Centro al 48%, il Sud al 37%. Ma al Sud va riconosciuto anche su questo ha ragione De Luca che la Campania ha registrato veloci avanzamenti ben oltre la quota complessiva del 50% in questi ultimi due anni, rispetto al 15% della Sicilia o al 33% della Calabria. E la media campana sarebbe molto più alta, visto che Benevento e Salerno sono ormai verso il 70%, se nel Comune di Napoli la percentuale non cadesse invece di oltre 30 punti sotto.
Una visione complessiva del molto che resta da fare per chiudere il ciclo dei rifiuti in maniera ecocompatibile non si risolve alla questione dei termovalorizzatori. Se diamo un occhio agli impianti di trattamento meccanico-biologico, erano 130 in Italia nell’ultima ricognizione dell’Ispra, di cui 42 al Nord, 36 al Centro e 52 al Sud. Non è un buon dato, al contrario. Mentre al Nord la quantità di rifiuti avviati a Tmb decresce a ritmi dell’8% annuo, al Centro e al Sud aumenta, perché questo tipo di impianti rappresentano il modo per ovviare all’emergenza, senza chiudere il ciclo e con maggiori rischi ambientali, visto che la frazione umida e quella di percolati resta elevata. Oltre il 50% di queste lavorazioni, infatti, finisce poi in discarica. Al Sud, meno del 15% all’incinerazione e poco più dell’1% in recupero materiali.
In sintesi estrema, la vera sfida dei rifiuti in Italia resta quella di abbattere la quota destinata a discariche, accrescere quella con raccolta differenziata, non demonizzare i termovalorizzatori che hanno consentito al Nord di smaltire il gap di chiusura del ciclo al Sud. E per far questo servono gli impianti necessari, non bandiere ideologiche che magari sono a forte presa elettoralistica, ma nemici dell’ambiente e della salute.