La Stampa, 20 novembre 2018
Mantegna e Bellini amici e rivali
A volte bisognerebbe non leggere le critiche dei giornali, prima di andare a vedere una mostra. O forse, come nel caso di «Mantegna and Bellini» alla National Gallery di Londra, è meglio leggerle per poi non tenerne conto. Sia il Guardian sia il Financial Times, i due più prestigiosi santuari culturali britannici, hanno sollevato dubbi sul modo in cui l’esposizione mette a confronto l’opera dei due grandi maestri del Rinascimento. Troppo accademica, uno sfoggio di inutile erudizione, meticolosi raffronti di particolari tra i due più adatti a Csi che all’arte. «Lasciate ogni speranza, o voi che entrate senza un PhD» ironizza il critico del Guardian Jonathan Jones.
Bene, ora che lo sapete, fregatevene e godetevi queste sale piene di colore e pittura ai massimi livelli, per i quali non c’è certo bisogno di avere un dottorato a Oxford, con l’accortezza casomai di non soffermarsi troppo sulle didascalie. Pensate invece che avere tanti prestiti così eccezionali (Berlino, Louvre, Uffizi, Galleria dell’Accademia e Fondazione Querini Stampalia, molti privati) e poterli vedere tutti insieme è un’occasione «senza precedenti e probabilmente irripetibile», come dice il direttore della National Gabriele Finaldi. E che, come spiega la curatrice Caroline Campbell, anche direttrice della sezione Collezioni e Ricerca, la relazione particolare tra Mantegna e Bellini, cognati, amici e rivali, è di importanza cruciale non solo nell’arte Rinascimentale: «Senza Mantegna e Bellini la storia della pittura, se non addirittura della cultura occidentale, avrebbe seguito un corso diverso. Non ci sarebbero Rubens e Degas senza Mantegna, non ci sarebbe Tiziano senza Bellini».
Due pilastri, quindi. Uguali, ma diversi. Il bello dell’esposizione sta nel colpo d’occhio, nel mettere a confronto lo stesso soggetto, talvolta la stessa composizione (come nel caso della Presentazione di Cristo al tempio) per far risaltare il diverso modo di rappresentare la realtà, che rispecchia due modi di vivere, due personalità, due storie, in un gioco sì di rivalità, ma anche di dialogo continuo e di stima reciproca.
La storia inizia nel 1453, quando Mantegna sposa Nicolosia, sorella di Giovanni Bellini, il cui padre Jacopo è a capo di una delle più prestigiose botteghe di pittura a Venezia. Bisogna immaginarsi le relazioni personali, per capire. Mantegna è più vecchio, si è fatto da sé. Figlio di un carpentiere, è un talento autodidatta, astro nascente cresciuto a Padova dove respira l’aria della città universitaria cosmopolita, si interessa di anatomia, si imbeve di studi classici. Quando arriva a Venezia è più vecchio e ha più esperienza del cognato, il giovane Giovanni Bellini, che immaginiamo più delicato, colto, a suo modo un figlio di papà, dimesso e riservato.
Di lui si sa meno, neanche la data di nascita precisa (intorno al 1435), perché non lascerà mai la sua bottega e la sua Venezia. Tutta questa riservatezza si rispecchia nei suoi dipinti, nella luce, nei colori pastello, nei famosi cieli che si tingono di rosa e color pesca (da cui il nome del cocktail Bellini), nella meticolosità dei paesaggi e nella prospettiva, che usa per creare una nuova idea di arte. Dell’altro si sa molto di più, anche perché nel 1460 lascia Padova e diventa pittore di corte dei Gonzaga a Mantova e quindi ci sono molte notizie su di lui nei documenti ufficiali.
Mantegna uomo volitivo, complicato, conscio della propria abilità, all’inizio ha una grande influenza sul cognato. Nelle opere di Bellini si ritrovano molte idee e invenzioni di Mantegna. Ma le influenze sono reciproche, e si vedono soprattutto quando lavorano sugli stessi soggetti: L’Orazione nell’orto, la Discesa nel Limbo e la Crocifissione condividono la composizione. Figure, animali, elementi del paesaggio sono così simili da rendere ancora più evidente la differenza della loro arte. È proprio la somiglianza dei soggetti a far emergere le differenze. E se girate per le sale della National Gallery ve ne renderete conto senza bisogno di un PhD. E lo capirete anche nelle sale più iconiche, quelle dedicate alla rappresentazione del Cristo, dalla Crocifissione alla Pietà: in Mantegna prevalgono i particolari anatomici e i legami umani tra la madre e il bambino, Bellini ne dipinge molte di più, anche per uso votivo privato (e su commesse private, mentre Mantegna era l’artista intellettuale che sceglie da sé i soggetti dei suoi dipinti), ma ogni volta le rivisita a modo suo sfruttando la familiarità del soggetto.
L’ultima sala è dedicata all’antichità, dove troneggiano tre dei nove trionfi di Giulio Cesare che Mantegna esegue per i Gonzaga a Mantova, dopo che finalmente nel 1488 era riuscito a visitare Roma di persona. In questo Mantegna è insuperabile, e infatti Bellini si tiene alla larga dai soggetti classici, pare per paura del confronto. Solo dopo la morte del cognato, nel 1506, Bellini si azzarderà a dipingere un suo fregio rappresentante un Festino degli dei. Alla fine, più che di rivalità, quella tra i due sembra una storia di complicità e di grande rispetto. E infatti l’ultima opera lasciata incompiuta da Mantegna fu completata proprio da Bellini, che morirà dieci anni dopo, nel 1516.