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 2018  novembre 20 Martedì calendario

Diplomazia degli oleodotti

Di questi tempi si fa, correttamente, un gran parlare degli elementi negativi dell’economia italiana che ci hanno portato allo scontro ancora in atto con Bruxelles, le cui durezze sembrano aumentare sempre più.
Ogni tanto dovremmo parlare anche dei molti aspetti positivi che impediscono al Paese di affondare nel Mediterraneo e di rimanere una parte vitale dell’Europa.

Uno di questi è apparso in piena luce in questi giorni riguarda l’Eni, il gruppo petrolifero italiano che è anche una delle (assai poche) presenze italiane tra le aziende veramente grandi del pianeta e che, già per le sue stesse dimensioni, ha un’importante rilevanza geopolitica. L’Eni, di cui lo stato italiano possiede il 30 per cento del capitale – oltre a disporre di «poteri speciali» in caso di emergenza petrolifera italiana e di operazioni sul capitale – è presente in molte zone petrolifere del mondo e si distingue dagli altri big del petrolio per aver seguito una particolare strategia industriale particolare. che ora può risultare di grande vantaggio a un Paese i cui confini meridionali sono molto prossimi a zone ricche di petrolio e di problemi, a cominciare dalla Libia.
Nel corso degli ultimi 2-3 decenni, l’Eni ha concentrato molte delle sue grandi energie operative su una «strategia a sei zampe», ossia quante sono quelle del cane che è da sempre il suo simbolo: ha puntato sul gas, sui giacimenti sottomarini, sull’esplorazione, sugli oleodotti (specie quelli posati sul fondo dei mari), sulla vendita di quote dei giacimenti scoperti, sul mantenimento della loro gestione in nome di tutti i soci e quindi di una quota non piccola della concessione originaria.
In questa strategia il cane a sei zampe ha avuto un considerevole successo negli ultimi anni: le scoperte e la messa in funzione di giacimenti di gas e altri idrocarburi, di estrema importanza mondiale, in Mozambico, Angola e soprattutto Egitto, hanno contribuito fortemente. a compensare la ridotta produzione di una Libia squassata dalla guerra civile, dove l’Eni ha molte concessioni. L’Eni è anche apprezzata in giro per il mondo anche perché… è italiana. Non è quindi americana, inglese, francese, non fa riferimento a una grande potenza ma a una potenzia media e attiva, con la quale i Paesi produttori tendono a fare affari più volentieri perché non temono troppo di essere «schiacciati» da pressioni indebite.
Ora l’Eni è entrata nel Golfo, proprio mentre i destini della Libia venivano affrontati, con una certa delicatezza ma con scarso successo immediato, nella recente riunione di Palermo. Ha ottenuto la concessione per l’esplorazione e lo sfruttamento di tre giacimenti sottomarini di gas in un’area del mondo che è stata a lungo, per quanto riguarda il petrolio, un «lago anglosassone» e una zona in cui il groviglio dei tubi, terresti e sottomarini, fa riscontro al groviglio delle alleanze e delle contro-alleanze. Insomma, nella zona più complicata del mondo.
La speranza è che, come è successo altrove – a esempio dell’Asia ex sovietica – il ruolo di coordinatore delle attività petrolifere svolto dall’Eni sia l’inizio di un flusso più ordinato delle fonti energetiche e di soluzioni che, assicurando un po’ di benefici a tutti, rendano meno probabili le guerre e aiutino a risolvere, oltre a problemi energetici – l’Eni ha anche interessanti soluzioni di carattere «verde» – anche problemi politici e contribuiscano a controbilanciare il rischio di una perdita di importanza economica dell’Italia. L’Eni insomma, è la nostra vera «compagnia di bandiera»; speriamo che l’Alitalia, che si è a lungo fregiata di questo tipo, possa muoversi anch’essa in questa direzione.