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 2018  novembre 20 Martedì calendario

A Tripoli i dollari si trasportano con le carriole

«Signore, la posso aiutare? Sono 25 dinari». Un gruppo di ragazzini è fermo all’imbocco della città vecchia, alle spalle della Banca centrale. Ognuno di loro regge una carriola celeste, come quelle utilizzate per i lavori edili anche se qui servono per trasportare banconote, montagne di dinari che vengono cambiati al mercato nero. Siamo a Tripoli, nella parte del centro storico chiamata «Borsino», ovvero la Borsa parallela dei cambi, dove la gente arriva col portafogli o le valigette piene di valuta estera e incassa quella locale. Per la divisa statunitense, ad esempio, il cambio ufficiale è di 1,3 dinari per ogni dollaro, ma sul listino nero la quotazione minima è di 5 a 1, con possibilità di incrementi all’aumentare della somma contrattata e del taglio utilizzato: il Benjamin Franklin (il pezzo da 100) è il più richiesto. Da qui la necessità della carriola caricata con sacchi colmi di dinari in pezzi da 5, 10 e 20, una montagna. Il tutto, forse non a caso, alle spalle dell’Istituto centrale, quello che riceve dalla National Oil Company (l’authority che gestisce i ricavi del petrolio) 1,6 miliardi di dollari al mese, per ripartirli tra i diversi capitoli della spesa pubblica. 
Il via vai delle carriole è un tutt’uno col flusso di persone che affolla la Medina, la città vecchia animata da botteghe artigiane in cui si vendono spezie, vestiti, tappeti, pelli, antiquariato e gioielli. Alcuni pezzi di argenteria mostrano l’inconfondibile mano dei vecchi artigiani italiani venuti qui nella prima metà del secolo scorso per insegnare l’arte dell’incisione e sperimentarla con contaminazioni arabe e berbere.
Il venerdì e il sabato sono le donne le protagoniste della Medina, con i visi avvolti, o nascosti, dai veli disegnati come un’onda scura, dal porpora al nero salafita, che adorna le mura della città vecchia. Proprio il recinto murario, sempre più decadente, è diventato una delle emergenze della capitale, riflesso della “emergenza Libia”, ostaggio di divisioni e incomprensioni. Edifici crollati e trasformati in discariche, pilastri di legno a sorreggere archi e palazzi pericolanti tra vicoli stretti, il cui volto storico, artistico e architettonico rischia di essere sfigurato da interventi realizzati da abitanti inconsapevoli del valore del luogo, ma anche da speculatori, che approfittano del caos politico e istituzionale. 
I muri sostenuti dall’Italia
Appare così la Città vecchia, ad esempio, negli scatti della fotografa Hiba Shalabi pubblicati su Twitter sotto l’hashtag #saveoldcityTripoli, un’iniziativa lanciata in collaborazione con l’ambasciata italiana, per volontà del capo missione Giuseppe Perrone, e divenuta un documentario presentato al Festival del Cinema di Roma. Un’emergenza che rischia di peggiorare col caos di veicoli che tiene in scacco le strade della capitale raccontato dalla sinfonia metallica di clacson che cadenza il traffico attorno alla piazza dei Martiri. Per arrivarci bisogna cambiare più volte strada, dribblando auto e moto che affollano la zona di Shal al Marri, alle spalle del centro. E che durante i giorni feriali si allarga a tutta la città con incessanti file di auto sul lungomare che disegnano un gioco di linee parallele con quelle tratteggiate dalle navi cargo in transito al porto. 
La zona di al Marri ospita negozi di ricambi per auto e magazzini di tessuti provenienti da Ciad, Niger e dal Fezzan. Ed è questo l’altro elemento che salta agli occhi: la presenza sempre maggiore di persone provenienti da Sud della Libia, dalla carnagione più scura. «Il Sud è un non Stato ormai, non c’è sicurezza, non c’è carburante, non ci sono soldi, manca l’assistenza sanitaria e le scuole non funzionano». A parlare è Yussef musicista di Ghatt che sui ritmi “etno-soul” denuncia le condizioni della gente Tuareg vittima sovente di abbandono e discriminazione. «Non ci resta che emigrare, venir qui, per garantire un futuro migliore ai nostri figli, e nonostante questo dobbiamo lottare per essere quasi alla pari dei connazionali arabi». La frustrazione del Meridione si cementa con quella di Tripoli dove vive un terzo della popolazione libica, alle prese ogni giorno con le attese agli sportelli bancari dove i prelievi sono contingentati a 500 dinari, o costretta a lunghe file nei negozi dove talvolta mancano prodotti e il personale è insufficiente. O con la rabbia di chi si deve accontentare di mille dinari al mese e vede il 60% dei proventi del petrolio stipendiare 1,8 milioni di dipendenti pubblici, tra milizie, doppi ministeri e parlamentari di Est ed Ovest che ne intascano 20 mila. 
I Robin Hood
In un clima come questo è una tentazione cedere alle derive dei capipopolo travestiti dai Robin Hood, in una sorta di onda populista in salsa libica pronta a riempire il vuoto creato dalla politica o dalla perdita di fiducia nei confronti di leader, istituzioni internazionali e partner stranieri. Compresa l’Italia il cui ruolo di punto di riferimento si sta allentando con l’assenza dell’ambasciatore. «Quando torna?»,chiede chi auspica la vicinanza di Roma, come Ashraf e Mathi, entrambi del Sud, entrambi impiegati in attività che hanno a che fare con l’Italia. Il secondo ha vissuto tra Colorado e Florida per due anni, parla un ottimo inglese ed è uno che di politica capisce tanto quanto di vita vissuta. I due ci accompagnano ad Hay Allislami, il quartiere alla periferia di Tripoli dove vive Ashraf. Per arrivarci si passa attraverso la via delle carni, una specie di mattatoio a cielo aperto, dove accanto ai capi appesi e scuoiati ci sono anche animali vivi, pecore, galline e qualche mucca sonnecchiante. In un angolo si cucinano le zampe delle bestie, a portar via, «una specialità»: «Un’altra volta magari». 
A tavola, o meglio sul tappeto conviviale, ci viene servita una sorta di pizzaiola: «Abbiano preparato carne di gazzella e un sugo di cammello». La nostra titubanza è vinta dalla garanzia che il bovide è stato essiccato per tre giorni. «La soluzione non è in una sola Libia - dice Mathi - Due popoli per due Stati, i tuareg con Tripoli, i tebu con Bengasi». E perché non tre, Tripolitania, Cirenaica e Fezzan? «Non sia mai - chiosa - Volete che il Sud diventi il bivacco delle truppe francesi?».