Corriere della Sera, 20 novembre 2018
Anna Cataldi e la class action sul film «La mia Africa»
«M’è arrivata qualche mese fa una lettera da New York. Sono passati più di trent’anni, “La Mia Africa” passa ancora sulle tv di tutto il mondo, però io non ho più visto un dollaro di diritti. Solo Robert Redford e Sydney Pollack avevano un contratto diverso e ne incassano. Così Meryl Streep vuole far partire un’azione legale». Chiaro, nell’86 il film ebbe sette Oscar... «Anch’io ho firmato, con tutti quelli che ci hanno lavorato. Una class action. Ma non abbiamo grandi speranze. Dovremmo fare come Sean Connery: quando s’accorse di non guadagnare con James Bond, girò per avvocati a recuperare i soldi. Era inferocito. Ma era anche scozzese...».
La sua Africa non è più tanto sua. Anna Cataldi la prende con ironia, non sarà certo uno studio legale a scriverne la storia. D’una donna che negli anni 70 intuisce la grandezza di Karen Blixen, compra i diritti cinematografici, per un settennio riceve solo maleducati rifiuti (da Polanski a Orson Welles), eppure insiste e infine la spunta. Se andate agli Studios, il nome di Anna Cataldi è additato sulle locandine che li hanno resi grandi. Se leggete «La coda della sirena. Come ho portato “La mia Africa” a Hollywood», il memoir che domani sera Walter Siti e Alessandro Preziosi presentano a Milano (Rizzoli Galleria, ore 18.30), capirete perché la Mecca del cinema canti ancora dai suoi minareti, ma le sirene non incantino più Anna: «L’Hollywood d’allora era esattamente come oggi: droga, sesso e corruzione. Poi ogni film ha una sua storia, ma quel mondo è lo stesso dagli anni 30 e il caso Weinstein non è stato una sorpresa (ora ne dicono di tutti i colori, ma almeno lui qualche buon titolo l’ha messo in circolazione...). Fellini diceva: sono stato spesso a Hollywood, ma non l’ho mai trovata. È un posto bello e alienante. Durissimo, se sei una donna sola. Samuel Goldwyn mi prendeva in giro: Anna, credevi di trovare una felice comunità d’artisti, invece hai scoperto un mondo di farabutti col pelo sullo stomaco».
Molti mondi e molta Africa sono passati da quel film. Anna li ha attraversati da giornalista di guerra e ambasciatrice speciale dell’Onu: «Per un bisogno di testimonianza. Non mi piace chi si mette in primo piano, nelle tragedie le nostre sensazioni sono irrilevanti». Articoli e libri dall’assedio di Sarajevo, biografie d’altre donne coraggiose: «Che siano donne o uomini, la sofferenza non ha genere. Ricordo quando c’erano i talebani e qui si parlava tanto del burqa. Giusto. Però c’erano anche gli uomini: c’era un poveretto che non aveva la barba e finiva sempre in prigione. Ma solo perché era nato così, glabro». La curiosità e le emozioni hanno generato anche questo libro: «L’ho scritto per le mie figlie. Volevo lasciare loro qualcosa che raccontasse di quando c’era ancora Giovanni», il figlio maggiore, morto a 28 anni in un incidente. Nella sua Africa, Cataldi è appena tornata: «Ma non in Kenya, che non ho mai amato. Quella è un’Africa senza memoria e rovine, rifiuta il passato. A parte la costa, è come se lì l’uomo non ci fosse mai stato. Ci si fanno solo i safari e lo stereotipo fa sognare un Robert Redford che ti lava i capelli nella savana». Il film ha fatto molto... «Sì, un amico che ci vive, mi ha detto che il Kenya dovrebbe premiarmi per questo. Io però penso che il Kenya, dalla Blixen a Kuki Gallman, non abbia mai portato fortuna a nessuno. A me piace molto di più l’Etiopia».