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 2018  novembre 20 Martedì calendario

«I veri Vichinghi? Fieri, poetici e femministi»

Violenti, crudeli, selvaggi. Ma anche egualitari, femministi, autoironici. Con il culto della morte, al punto da andarle incontro “ridendo”. Ma anche sufficientemente romantici da andarle incontro recitando versi di poesia. Chi erano davvero i Vichinghi, il popolo scandinavo che alla caduta dell’Impero Romano, tra il 793 e il 1066 dopo Cristo, dominò l’Europa spingendosi fino al Medio Oriente e all’America, suscitando il terrore con le sue scorrerie a bordo delle più veloci navi dell’epoca? E perché stiamo assistendo a un revival della loro cultura, dalla letteratura al cinema, dai serial televisivi (Vikings) ai videogame? «Sono stati probabilmente i primi europei moderni», afferma Tom Shippey, docente di letteratura alla Leeds University, dove ricopre la cattedra che fu di Tolkien, e autore di Vita e morte dei grandi Vichinghi (pubblicato da Odoya con una bella prefazione di Wu Ming 4), un saggio che si legge come un romanzo, accolto in Inghilterra come il più importante mai scritto sull’argomento. «Le imprese e i miti di Ragnar ed Erik il Rosso ci affascinano, perché in quel mondo del passato cerchiamo lo stimolo per affrontare le sfide del presente, in fondo non dissimili», osserva Shippey.

«Come resistere anche di fronte alla sconfitta, come lottare uniti, senza abbandonare nessuno lungo il cammino, per preparare la rivincita».
Noi popoli del sud Europa eravamo abituati a immaginare i Vichinghi come una versione migliore, più nobili, più intelligenti, una sorta di commercianti navigatori armati di spade.
Erano invece una banda di ladroni assetati di sangue, come li descrive nel libro?
«Di sangue ne hanno certo sparso molto. La parola stessa, vichingo, nella loro lingua significa pirata, ladro. Eppure nell’orrore che diffondevano c’era anche qualcosa di ammirevole: il coraggio davanti alla morte; l’abitudine di morire pronunciando una specie di ultime parole famose. Nella mitologia norrena, le grandi battaglie fra dei e mostri sono solitamente vinte dai mostri, ovvero dai cattivi, non c’è il lieto fine come nel resto d’Europa. Ma anche il finale amaro non è per i Vichinghi una ragione valida per arrendersi».
Il titolo dell’edizione inglese del suo volume, "Morirò ridendo", riassume bene il concetto.
«Sapere che dopo la morte sarai vendicato, che la tua memoria sarà onorata, che altri si prenderanno cura della tua famiglia, è importante. Ma in quel verso di una poesia norrena c’è anche il rifiuto di lasciarsi intimidire. Appena fuori dalla finestra di casa mia, nel Dorset, scavi archeologici hanno rinvenuto i resti di quindici Vichinghi decapitati. Si erano fatti tagliare la testa dal davanti, guardando la lama. Un po’ come chi, davanti al plotone di esecuzione, rifiuta la benda sugli occhi».
Da dove veniva tanto coraggio?
«Dalla coesione di gruppo. I Vichinghi non si abbandonavano. Esistono molti resoconti di una nave vichinga sotto attacco al cui soccorso vanno altre navi, pur esponendosi al rischio di soccombere. Se il leader di forze inglesi moriva, i suoi soldati si fermavano. I Vichinghi non dipendevano dal leader, si sentivano in un certo senso tutti uguali».
Un esercito democratico?
«Certamente una società non aristocratica, meno classista.
Molte decisioni venivano votate in assemblea. Era una forma di democrazia primitiva».
In Islanda mi hanno raccontato che la loro uguaglianza tra i sessi discende dai Vichinghi, che partivano per viaggi di un anno lasciando la moglie con schiavi maschi e non potevano protestare se, al ritorno, trovavano un neonato in più.
«La storia e la letteratura vichinga abbondano di forti figure femminili. Questo destava sorpresa in altre culture entrate a contatto con loro: gli arabi non potevano credere che le donne Vichi nghe avessero così tanti diritti civili, potevano essere proprietarie, decidere autonomamente di divorziare. Non dobbiamo meravigliarci se, con simili antenati, la Scandinavia sia la regione europea in cui le donne hanno anche oggi più diritti, più uguaglianza e il maggior numero di leader in politica o negli affari».
Erano guerrieri poeti.
«Recitare versi, in battaglia e perfino in punto di morte, era motivo d’orgoglio, quasi una necessità. La poesia era perciò considerata un’attività decisamente virile. Senza dimenticare che, in questo campo, eccellevano anche le donne, come testimonia il mito delle Valchirie».
E non difettavano di umorismo, altra caratteristica insolita per una stirpe di feroci combattenti.
«Un umorismo crudele, talvolta spiacevole, ma condito di autoironia, la capacità di saper ridere di se stessi. Del resto, se ridi della morte, puoi ridere di tutto».
Assetati di sangue, insomma, ma quasi democratici, femministi e autoironici: sono stati i primi europei moderni?
«In un certo senso sì. Grandi viaggiatori, aperti al mondo, all’interazione culturale, all’uguaglianza sociale e tra i sessi. Hanno portato qualche raggio di luce nei secoli bui, traghettandoli verso un Medioevo da cui l’Europa avrebbe spiccato il balzo verso il Rinascimento».
Citando la loro propensione per i grandi viaggi, lei tocca un punto debole di noi italiani: che ci vantiamo di avere "scoperto" l’America con Cristoforo Colombo, mentre in effetti ci sono arrivati prima i Vichinghi.
«Ci sono arrivati prima, ma a differenza di Colombo non hanno avuto molto successo. Non erano abbastanza forti, non avevano alle spalle una grande potenza colonizzatrice come la Spagna o le altre potenze europee che hanno poi varcato l’Atlantico. I Vichinghi sbarcarono in America essenzialmente per un solo motivo: fare legna. In Islanda non ci sono alberi. E senza alberi non si costruivano navi».
Perché in anni recenti c’è stato questo ritorno dei Vichinghi, dai libri al cinema, dalla tv ai videogiochi?
«Siamo attratti da un’epoca diversa dalla nostra, in cui intravediamo più indipendenza e libertà. Rientra nel fenomeno anche il successo mondiale di una serie come Il Trono di spade, che ha numerose radici nella cultura vichinga. È paradossale che l’uomo medio odierno senta il fascino del Medioevo. Non fu certo un’era di democrazia. Ma proprio per questo c’erano eroi positivi che lottavano per diritti, giustizia, onore, ideali che nel cinismo politico di oggi sembrano perduti».
Ed esiste una connessione tra i Vichinghi e Tolkien, il grande scrittore di saghe come "Il Signore degli anelli" di cui lei è un appassionato studioso?
«Per le sue fiabe, Tolkien prese molto dai vichinghi: nomi, personaggi, leggende. In effetti il revival che stanno avendo i Vichinghi è figlio di quello che hanno avuto i libri di Tolkien in precedenza. Predicano la stessa cosa: anche quando le cose vanno male, dobbiamo continuare a batterci per i nostri valori, unirci e resistere. È un peccato dovere andare indietro di secoli, tornare a un vecchio mondo, per trovare lo stimolo necessario ad affrontare le sfide del nostro tempo. Ma è consolante che almeno quel mondo è esistito e ha lasciato messaggi ancora in grado di emozionarci».