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 2018  novembre 20 Martedì calendario

In Gran Bretagna chiude un ristorante etnico al giorno

Syed Joynu, 62 anni, ha votato Brexit e aveva un ristorante indiano, una “curry house”, poco fuori Londra che prima del referendum del 2016 fatturava circa 500mila euro all’anno. Una mattina del settembre scorso i suoi lavoratori, tutti romeni, non si sono presentati al lavoro. Syed allora inizia a indagare: scopre che sono tornati tutti in patria. Una gioia per i “brexiters” anti-immigrazione come Nigel Farage e Boris Johnson, una catastrofe per Syed, che ha dovuto chiudere il suo locale. Come ha dichiarato lui stesso a Bloomberg, «non pensavo che la Brexit potesse causare tutto questo. Se si potesse rivotare, sceglierei di rimanere nell’Ue».
Questo perché molti lavoratori dell’Unione europea, fondamentali per l’economia del Regno Unito, hanno già iniziato a tornare nei loro Paesi ben prima che Londra abbandoni definitivamente l’Ue. Nel 2018 le loro presenze oltremanica sono crollate. Secondo l’Istituto nazionale di statistica britannico, nella bilancia di arrivi e partenze di lavoratori Ue, il Regno Unito ne ha già persi più di 150mila solo nel terzo trimestre. Numeri paurosi, che hanno contribuito alla chiusura di centinaia di ristoranti indiani e bengalesi, circa uno al giorno, aggravando la già pesante crisi del settore.
Come è possibile un fenomeno simile? Innanzitutto, la disoccupazione nel Regno Unito è già bassissima, al 4%, un dato che non si vedeva dagli anni Settanta. Questo, oltre a far innalzare i salari, ingigantisce le schiere di posti di lavoro vacanti, sinora colmati soprattutto dalla manodopera europea grazie alla libera circolazione dei lavoratori, come gli chef e i camerieri nelle "curry houses”. Reclutare cuochi asiatici, invece, non è affatto facile; con le regole attuali, per avere un visto devono dimostrare di essere specializzati e di poter guadagnare almeno 35mila sterline all’anno, una cifra molto alta. Basti pensare che quando Buckingham Palace quest’anno ha pubblicato un bando per uno chef, ha fissato il compenso a 21mila pound.
Ecco perché la direttrice generale della Confindustria britannica, Carolyn Fairbairn, ha criticato ieri duramente il piano della premier Theresa May sull’immigrazione: chiudere le porte soprattutto ai lavoratori europei “accusati di saltare la fila”, anche senza una grossa specializzazione, può causare problemi colossali alle aziende del Regno Unito. La Brexit non è ancora effettivamente in vigore (e, a meno di un brutale “no deal”, non lo sarà fino al 31 dicembre 2020) ma già adesso si vedono le prime avvisaglie catastrofiche sulla forza lavoro.
Un altro settore dove la manodopera Ue è vitale è l’industria della carne, dove decine di migliaia di lavoratori, anche qui dall’Est Europa, svolgono lavoriche i britannici ormai rifiutano, come le catene di montaggio per spezzare polli e filetti a una temperatura di tre gradi. Nel Regno Unito, il 60% della forza lavoro nell’industria del pollame e il 63% di quello della carne rossa proviene proprio dall’Europa continentale. Dopo la Brexit, che cosa succederà? La soluzione sarebbe introdurre dei contratti stagionali, come quelli già ideati per il settore agricolo, l’altro campo più assetato di manodopera europea oltremanica. Ma il governo britannico non sembra intenzionato a farlo. Eppure il sistema rischia di avere falle ovunque: nel settore edilizio, per esempio, o nella sanità britannica.
Qui, secondo le associazioni Nuffield Trust, King’s Fund e Health Foundation, il Regno Unito rischia di ritrovarsi una voragine di addirittura 250mila posti di qui al 2030. Qualche settimana fa il ministro della Salute britannico Hancock ha esortato i britannici a riscoprire “il volontariato” in ospedale. Peccato che, con tutta la buona volontà, questo non basterà.