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 2018  novembre 19 Lunedì calendario

Biografia di Don DeLillo

Don DeLillo, nato a New York il 20 settembre 1936 (82 anni). Scrittore. Saggista. Drammaturgo. «Io non sono Hemingway. Sono solo il ragazzo del Bronx con un cognome difficile da pronunciare». «Soltanto quattro giorni fa ero un bambino del Bronx. Cosa ho fatto per trovarmi qui?» • Figlio di due italiani emigrati negli Stati Uniti da Montagano (Campobasso). «Sono nato e cresciuto in una casa abitata da tre generazioni italoamericane: undici persone tra nonni, genitori, sorella, zii e cugini. È stato un bel modo di diventare adulto». Crebbe nel Bronx di New York. «North Bronx, dalle parti di Arthur Avenue: lì ci sono i mercati generali. […] “È lì che sono cresciuto. A due passi da quel mercato. È il Bronx italiano. Ricordo le strade strette. Un quartiere rumoroso, affollato, meraviglioso, sempre in movimento. Tutti correvano, tutti avevano qualcosa da fare. Attività di ogni sorta: c’era chi vendeva, chi comprava, chi rubava. Ricordo il coraggio, il lavoro e la voglia d’integrarsi di mia madre e di mio padre”. […] Come mai non ha imparato l’italiano? “Non volevano i miei genitori. Dovevo crescere come un americano. Era meglio così: integrarsi e lasciare alle spalle il resto. Comunque, un po’ lo parlo. E lo capisco. Ma non ho un talento per le lingue, a parte la mia, e faccio molti errori”. Non si sente italo-americano? “Nel Bronx era una domanda che non ti facevi. Non ci pensavi. Diventavi italiano solo quando ti capitava di fare a botte con altre bande, magari gli irlandesi. […] Da adolescente avevo a che fare con la violenza tutti i giorni. Fatti di sangue e vere e proprie esecuzioni. Era la mafia. […] A quel tempo non sapevo neppure cosa fosse la letteratura. Ho cominciato a leggere a 16-17 anni. Capii che era la strada per uscire dal Bronx”» (Vittorio Macioce). «Da ragazzino facevo un lavoretto in un parcheggio di auto. Mi annoiavo, e cominciai a leggere. Fu l’inizio dei miei anni d’oro della lettura, quando avevo venti e trent’anni» (a Paolo Mastrolilli). «Anni ’50: quali erano i miti di un ragazzo di origine italiana del Bronx? “L’America”. Cioè? “Il mito che ci fosse un’America al di là di quelle stradine strette e affollate. Un’America che io un giorno avrei scoperto”. L’ha trovata? “Quando sono uscito dal Bronx. Ci ho messo tempo. E anche i miei primi racconti parlavano ancora di quelle strade. Poi, con Americana, ho voltato pagina. Era il 1971”» (Macioce). Nel frattempo aveva completato gli studi, svolti presso istituti cattolici («liceo passato per lo più a schivare i libri e seguire lo sport – baseball, basket, football –, con il classico tifo dei nuovi newyorkesi che si vogliono integrare: Yankees, Knicks, Giants. Passavo le giornate a seguire cronache e partite»), laureandosi nel 1958 in Scienze della comunicazione, e aveva quindi trovato lavoro in un’agenzia pubblicitaria. «Ero un copywriter pubblicitario. Mollai. Non per scrivere. Mollai e basta. Un mattino mi dissi: oggi è il giorno. E poco a poco diventai uno scrittore». «Avevo le storie in testa, ma mi mancava l’ambizione. Mi ci è voluto un po’, a diventare uno scrittore serio. Quando ho cominciato, negli anni ’70, ero frenetico e convulso: scrivevo la sera tardi o al pomeriggio, senza criterio. Nelle umide notti d’estate mi sedevo per lavorare, poi mi lasciavo distrarre dalle falene. Le uccidevo: non per mangiarle, ma perché il loro ronzio mi faceva impazzire». «Prima avevo pubblicato occasionalmente dei racconti su piccole riviste. A un certo punto di Americana ho capito che avrei fatto questo mestiere, anche se non avessi mai trovato un editore» (a Cristina Battocletti). «La lingua ha iniziato a diventare la cosa più importante. Volevo rendere giustizia alle possibilità di sperimentazione che mi dava l’angloamericano. Così […] sono diventato uno scrittore serio, uno scrittore che dava importanza al linguaggio» (a Marta Perego). «DeLillo ha avuto la fortuna, a differenza di altri autori americani condannati a una carriera tutta in salita subito dopo l’esordio fulminante, di cominciare piano la sua scalata al Monte Rushmore della letteratura statunitense: sette romanzi in undici anni, dal 1971 al 1982 (Americana, End Zone, Great Jones Street, La stella di Ratner, Giocatori, Cane che corre, I nomi: tutti editi in Italia da Einaudi), ottimamente recensiti ma poco letti, prima di arrivare nel 1985 al libro che gli ha cambiato la vita, e la carriera, a 49 anni: Rumore bianco (sempre Einaudi), vincitore del National Book Award» (Matteo Persivale). «In Rumore bianco l’ambiente privilegiato è quello di una piccola università americana, presso la quale il protagonista, Jack Gladney, insegna […] “studi hitleriani”. […] Una vita protetta, opulenta, tranquilla, colta, dentro il gran fiume del benessere consumistico e della pax americana, in mezzo al rumore bianco, al basso continuo di radio, tv, sirene, elettrodomestici, traffico, informazioni, notizie. Una vita perfetta e affettuosa. Fino al giorno in cui una gigantesca nube tossica prodotta da un incidente allo scalo ferroviario cittadino non costringe l’intera città e lo stato a un’evacuazione in massa, che si svolge sotto la neve e la pioggia, secondo i folli rituali, il disordine, gli ordini, i contrordini, le bugie ufficiali, le verità nascoste, l’inefficienza del caso. È da questo incidente, raccontato da DeLillo con una prosa al tempo stesso minuziosa e apocalittica, notarile e fantastica, che prende le mosse un giallo familiare destinato a trasformarsi in tragedia e poi di nuova nell’accettazione della vita com’è» (Irene Bignardi). Rumore bianco «ha inaugurato il trittico – non una trilogia – della maturità dell’autore: Libra sull’assassinio Kennedy, Mao II su uno scrittore in fuga dal mondo che spiega come il mondo non sia più plasmato dalla letteratura ma dal terrorismo (era il 1991, l’anno dell’ottimismo generalizzato su scala globale per la fine della Guerra fredda), e Underworld. Dopo Underworld, romanzo-fiume di quasi novecento pagine che ci racconta una storia parallela del dopoguerra americano e della Guerra fredda – il baseball come summa dell’esperienza americana, la paura della bomba atomica, il rock, la distruzione dell’ambiente e l’implosione del capitalismo –, quattro romanzi che hanno dato vita al tardo periodo della creatività di DeLillo, libri più compatti, con pochi personaggi, quasi delle novelle lunghe se non proprio delle miniature, il maestro che – forse per reazione, o perché non è mai troppo tardi per sperimentare – impugna il bulino dopo aver terminato l’affresco della sua Sistina. È la tetralogia di Body Art, Cosmopolis, L’uomo che cade e Punto omega: una storia postmoderna di fantasmi, l’avidità di Wall Street, l’orrore e le cicatrici dell’11 settembre, la guerra come business e come necessità antropologica, evolutiva, che spinge noi umani verso l’annientamento» (Persivale). Nel 2011 ha pubblicato la sua prima raccolta di racconti, L’angelo Esmeralda (Einaudi 2013): «Li ho scritti tra il 1979 e il 2010 e non hanno un filo conduttore che li unisce, se escludiamo il fatto che li considero i migliori della mia produzione. Come nella migliore tradizione americana hanno un’aria di sospeso, di non finito». L’ultimo romanzo, Zero K (Einaudi 2016), è «la storia inquietante – allo stesso tempo limpida e opaca, nello stile dei suoi lavori più recenti – di un milionario non più giovane di nome Ross Lockhart, che stabilisce, sotto gli auspici di una quasi-setta tecno-utopistica chiamata La Convergenza, di farsi sospendere crionicamente insieme alla giovane moglie malata terminale, nella speranza che gli scienziati del futuro li resuscitino entrambi e consentano loro di vivere per sempre. In un certo senso, sembra un argomento strano per DeLillo, roba da fantascienza generica; ma vale la pena tenere a mente che la tecnologia e il terrore della morte sono argomenti che convergono nella sua opera da molti anni. “Questa è la ragione d’essere della tecnologia”, dice un personaggio in Rumore bianco, del 1985. “Da una parte produce fame di immortalità. Dall’altra minaccia l’estinzione universale. La tecnologia è la lussuria estrapolata dalla natura”» (Mark O’Connell) • Nel 2012, vincendo la sua profonda ritrosia, è eccezionalmente apparso al Festival di Cannes, per assistere alla prima proiezione mondiale di Cosmopolis di David Cronenberg, ispirato al suo omonimo romanzo del 2003. «L’ho apprezzato molto: Cronenberg ha realizzato un film potente e senza compromessi. È abbastanza vicino al libro. Vi si trova molto anche della sua lingua, che è spesso quella un po’ esoterica dei mercati finanziari. Ma è un film: tra le parole scritte su carta e la trasposizione sullo schermo resta un abisso. Le due forme non sono paragonabili» (ad Antonio Monda). «Cannes è davvero una pazzia. Guardavo tra il faceto e l’allibito centinaia di fotografi appostati davanti al mio albergo in attesa di catturare un divo. Per fortuna, nessuno sapeva chi fossi» • Nel 2003 il celebre critico letterario Harold Bloom ha annoverato DeLillo, insieme a Thomas Pynchon, Philip Roth e Cormac McCarthy, tra i quattro maggiori romanzieri americani viventi (nel frattempo Roth è morto, il 22 maggio 2018, a 85 anni) • Prima del grande successo scrisse anche un libro sotto lo pseudonimo femminile di Cleo Birdwell, Amazons, poi rinnegato. «Un DeLillo impuro che tenta un’operazione commerciale fingendosi una giocatrice di hockey 23enne e finisce per scrivere il suo libro più leggero, ma anche il più bizzarro e libero» (Cristiano De Majo) • «Forse Joyce è lo scrittore che ha avuto il ruolo più importante nella mia formazione letteraria» • Sposato, senza figli • Tra le sue maggiori passioni, oltre alla lettura, lo sport, il cinema e l’arte moderna e contemporanea. «Lo sport per DeLillo non è un passatempo come un altro. Underworld, considerato il suo capolavoro, inizia con la finale tra i Giants e Dodgers del 1951 e racconta l’America dalla Guerra fredda agli anni Novanta, attraverso l’epopea della pallina che segna la vittoria e che dalle mani di un ragazzo di colore passa a diversi proprietari. Un background sportivo – il piccolo Don sognava di diventare uno speaker di baseball – che lo ha formato assieme al cinema, elemento cui fa riferimento continuo nei romanzi. “Agli inizi degli anni Sessanta arrivarono i capolavori del cinema d’autore europei e giapponesi. Per la prima volta io, che ero abituato a masticare solo western hollywoodiani, capii che un film poteva avere l’ampiezza e la profondità di un romanzo”. I suoi mentori sono Fellini, Bertolucci, Godard, Kurosawa, Antonioni, citato esplicitamente nel suo romanzo d’esordio, Americana, per descrivere l’atmosfera di noia in una festa intellettual-metropolitana. È la storia di un giovane rampante della tivù americana che lascia la sua invidiata posizione professionale per girare del cinéma vérité» (Battocletti). «I riferimenti al cinema rimarranno una costante nelle successive opere di DeLillo, fino a trovare in Underworld, romanzo torrenziale del 1997, da molti considerato il capolavoro dell’autore, una valenza ancor più importante. Il titolo del libro infatti, oltre a omaggiare l’omonimo film di Josef von Sternberg del 1927, fa riferimento a un’immaginaria pellicola degli anni ’30 di Sergej Ejzenstejn (il grande autore sovietico de La corazzata Potëmkin e di Ivan il terribile), dispersa e ritrovata dopo decenni, che nel corso della narrazione viene proiettata in un circolo newyorkese nel 1974. Con l’avvento del nuovo millennio, DeLillo si è avvicinato ancor di più al mondo del cinema, collaborando ad alcuni corti e sceneggiando nel 2005 il poco conosciuto lungometraggio Game 6, diretto da Michael Hoffman con protagonisti Michael Keaton e Robert Downey Jr.» (Andrea Chimento). «La pittura astratta espressionistica è stata sempre una delle ispirazioni della mia scrittura. Pollock, Rothko, De Kooning: mi piace perdermi davanti ai loro quadri. È una grande esperienza, e presenta il vantaggio che poi non devo scriverne». «L’arte è il tema sotterraneo della letteratura di DeLillo, che descrive l’America come fosse arte performativa, un’installazione, qualcosa di fatto apposta per essere ammirato. […] DeLillo guarda il presente come un miraggio, che svanisce, si fa irreale, proprio nel momento in cui ci si accorge che tutti lo guardano» (Francesco Pacifico) • «“Ho avuto un’educazione cattolica. Il tempo è sempre stato per me un tema fondamentale. Quando ho scritto Punto omega volevo scrivere un romanzo sul tempo. […] Per questo ho deciso di ambientare il romanzo nel deserto, lontano da tutto. Dove l’unica cosa che accade è il tempo, ma non il tempo che passa. Il tempo come percezione essenziale di ogni istante”. In Cosmopolis, invece, tutto si svolge in una sola giornata. “Lì scrivo che è il denaro a creare il tempo. Il mondo in quel periodo era dominato dalla finanza: i soldi hanno iniziato a dominare il tempo. Una volta era il contrario. Il denaro ha dato un’accelerazione alla nostra osservazione e percezione. Eric Packer [il protagonista, giovane e ricchissimo finanziere – ndr] vive tutta la sua vita in un giorno. E questo lo distrugge”» (Perego). «Il morire – la paura di, l’inevitabilità di – è la tematica che innerva tutta l’opera di DeLillo: […] una carriera che con Zero K giunge al ventiduesimo atto tra romanzi, novelle e testi teatrali. Il dilemma della mortalità proiettava la sua ombra sugli esordi letterari ancora non del tutto a fuoco, sui Grandi Romanzi Americani della maturità dello scrittore – quelli che lo definiscono presso il grande pubblico come Rumore bianco e Underworld – e infine sulle nebulose di personaggi, situazioni e dialoghi, così rarefatti da assomigliare a visioni, delle sue opere tarde: Cosmopolis, L’uomo che cade, Point omega e, appunto, Zero K. Parlando di visioni, in DeLillo c’è da sempre una tensione profetica. Rumore bianco raccontava di una nube tossica sfuggita al controllo della tecnica un anno prima di Chernobyl. Riflessioni sulla potenza estetica del terrorismo globale impregnavano già i suoi romanzi, su tutti Mao II, quando un evento come l’11 settembre era ancora inimmaginabile. Cinque anni prima del collasso di Lehman Brothers, infine, Cosmopolis esplorava gli istinti autodistruttivi al cuore di Wall Street» (Cesare Alemanni) • «È lui l’ultimo patriarca del grande romanzo americano. […] DeLillo è il racconto dell’America che ha paura della morte e crede nell’immortalità. È quel paranoico senso di pericolo che non sai bene cosa sia o da dove arrivi. È l’identità americana narrata attraverso i suoi frammenti, le sue scorie, la spazzatura di oggetti consumati in fretta, come se il tempo e la storia della società di massa fosse scandita solo dai suoi rifiuti. Ed è lì che trovi il senso e l’interpretazione di ciò che siamo stati» (Macioce). «Se Pynchon, dai suoi segreti rifugi, lo chiamava “la voce più eloquente della letteratura americana” (ma forse ora pensa che siano entrati in scena altri protagonisti), James Ellroy dichiarava di esser stato sconvolto dalla lettura di Libra, il romanzo di DeLillo sull’assassinio di Kennedy. E, certo, il modo con cui DeLillo affronta i grandi nodi e gli umori della storia di questo secolo non può lasciare indifferenti: scava nel malessere profondo del lettore, sollecita una risposta emotiva. “Il mio esercizio letterario è cercare un linguaggio coinvolgente che rifletta questa visione”, mi disse ai tempi di Americana nel corso di una faticosa e fredda intervista. Qualcuno, obiettai, in questo linguaggio ha trovato un “misto di banale e di apocalittico”. “È vero: cerco di dare il massimo di attenzione a cose che altrimenti non verrebbero notate. Perché la narrativa serve proprio a scoprire quello che è trascurato nelle nostre vite”. E a contrasto c’è la visione grande, quella che la gente chiama apocalittica. Formano la ricetta per quel cocktail di minuziosità e grandezza che è Don DeLillo» (Bignardi) • Nel 1988, recensendo Libra, Robert Towers scrisse sulla New York Review of Books che «Don DeLillo […] ha soppiantato sia Pynchon sia Mailer come sciamano capo della scuola paranoide del romanzo americano». «C’è di certo paranoia nei miei romanzi, ma io non lo sono affatto. Per quanto mi riguarda, tutto è cominciato con l’omicidio di John Fitzgerald Kennedy e il mistero dei due sparatori, di cui mi sono occupato anni dopo in Libra. La sfiducia nelle versioni ufficiali è diventata, da allora, un elemento fondamentale della nostra cultura. Per non dire della violenza, a tutti i livelli, cui abbiamo assistito negli anni ’60 e ’70» • «I miei libri nascono da un’idea, a volte da un’immagine sola, prendo pochi appunti e non faccio mai scalette: lascio che il libro mi parli… Da giovane ascoltavo molto jazz, e forse una qualche eco è rimasta nei miei romanzi. Certamente "scrivi come Thelonious Monk suona" è stato il più bel complimento che mi si potesse fare». «Quando scrivo cerco di vedere in tre dimensioni, e tento di non avere mai uno stile da saggista, dove l’ambientazione è astratta e generalizzata. Mi piace pensare ai colori, alle forme, alle facce, agli oggetti. Anche se descrivo un uomo solo in una stanza, penso ad esempio al colore del muro. E credo che questo approccio debba molto al cinema». «Spesso comincio un romanzo perché ho una immagine visuale che mi spinge alla macchina da scrivere, e comincio a lavorare. […] Procedo frase per frase e mi vengono le idee. E anche il senso visuale delle parole sulla pagina ha impatto su di me. Uso una macchina da scrivere vecchia, con caratteri abbastanza grandi, e mi piace il suono della macchina, è un’esperienza sensuale. Scrivo lentamente, poi quando l’idea ha un suo fuoco batto più velocemente. Credo che la macchina da scrivere sia parte di ciò che faccio. Non direi che è come un pittore col suo pennello, no. Ma è cruciale, è parte del pensare. Io penso con un certo ritmo che va con il battere sui tasti. Non posso andare troppo sciolto. E non posso battere troppo in fretta. Non posso battere più veloce del mio pensiero». «Ho un estremo bisogno di sentire il rumore che fa ciascuna singola lettera quando colpisce il foglio. […] Una “i” non avrà mai lo stesso peso di una “p”. Sono molto attento ai dettagli, e col mio lavoro cerco di creare una lingua che possieda l’anatomia della bellezza, a due diversi livelli: quello delle parole, certo, ma pure quello delle lettere. […] Se lei dissocia le parole dall’oggetto che descrivono, se le ripete o le rilegge, compongono una danza simile a un esperanto di livello superiore. In questo senso l’angloamericano mi offre una serie di deliziose possibilità» (a Paola Maraone). «L’approccio è simile a quello di un pittore come Richter, che afferma di sentire quando un monocromo o una tela astratta sono finiti poiché non c’è più nulla da aggiungere o togliere. Io avverto automaticamente quando il libro è finito. È pura intuizione» (a Giuseppe Genna) • «Non presto alcuna attenzione al termine postmodernismo, che ha i significati più disparati. In architettura ha un’accezione, nel cinema un’altra, nella letteratura non ho ben chiaro che voglia dire. Io mi ritengo un modernista in linea con la letteratura che parte nel secolo scorso con James Joyce. La gente ama inventare termini: così, anni dopo, può dire che il movimento è finito: dà loro potere». «Io sono solo un romanziere: uno che aspetta la prossima frase» • Notoriamente schivo e riservato. «Anni fa aveva un biglietto da visita che, sotto il nome, avvertiva: “Non ne voglio parlare”» (Riccardo Staglianò). «Si è molto fantasticato riguardo alla mia scelta di vita. La realtà è che amo la privacy e sono molto selettivo nelle amicizie» • «DeLillo non ha un cellulare, usa ancora la macchina da scrivere Olympia comprata nel ’75 (“L’ho fatta sistemare di recente: è in splendida forma. Quasi mi manca lo strano rumore che faceva prima del check-up”) e la sua alfabetizzazione digitale si limita a un iPad su cui si documenta o cerca i titoli che sempre più spesso dimentica […] (ma ha confessato di dimenticare anche personaggi della sua affollata cosmogonia letteraria)» (Staglianò). «Tutti questi aggeggi che ci portiamo dietro hanno creato un obbligo di usarli e comunicare, anche quando non abbiamo nulla da dire. […] Mi rifiuto di moltiplicare le comunicazioni non necessarie» • «Ho letto che non voleva essere un autore italo-americano. “È vero, non volevo. Ma all’inizio ero proprio così. Scrivevo delle mie esperienze personali con amici e parenti nel Bronx italiano. Racconti brevi. E poi ho dato un taglio. Ed è per questo che il mio primo romanzo si chiama Americana. Ma sono cresciuto nel Bronx. Ora che ho una certa età sto ridiventando il ragazzino del Bronx. Ci penso più spesso, invecchiando”. E con Underworld ha voluto riprendere i temi del Bronx, inserendoli nel quadro più ampio dell’immaginario modernissimo costruito con gli altri libri? “Sì, esatto. Tornai al vecchio quartiere. Era la prima volta che ci tornavo. Mi ricordavo lo slang italoamericano, lo slang del Bronx. Ho dovuto riscoprire lo spelling delle parole. Il mio editor italiano non aveva idea di cosa fossero quelle parole. Magari erano parole italiane che esistevano solo in certe parti del Bronx”» (Pacifico) • «Non scrivo con l’ambizione di curare o di guarire. E al lettore, a dire il vero, penso poco. Solo quando il libro viene pubblicato mi viene in mente la vaga immagine di uno straniero solitario, un po’ triste come me, che se ne sta seduto da qualche parte in mezzo al nulla con uno dei miei romanzi in mano. Ma nel momento in cui scrivo penso solo alla pagina che ho davanti». «Io non sono certo di quello che penso, finché non scrivo: devo scrivere per comprendere ciò che penso. La scrittura è un estremo atto di concentrazione». «Alla mia età, scrivere resta una delle attività più eccitanti che mi siano concesse. La scrittura è una forma concentrata di pensiero. Aiuta a fissare l’attimo, ferma lo scorrere del tempo». «Io sono nato come scrittore marginale, e non so dirvi perché ho avuto tutto questo successo. Però non ho alcun problema a tornare nell’angolo della stanza, per osservare».